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La responsabilità medica in un caso di rottura della trachea durante l'anestesia con intubazione.

Il grado di diligenza esigibile dallo specialista va esaminato con maggior rigore ai fini della responsabilità professionale, dovendo aversi riguardo alla peculiare specializzazione e alla necessità di adeguare la condotta alla natura e al livello di pericolosità della prestazione.

Tribunale di Brindisi – Sezione civile, dott. Antonio Ivan Natali – Sentenza n. 932 del 24 giugno 2013.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Brindisi, in persona del giudice Dott. Antonio Ivan Natali, ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. 2026/2004 del Ruolo Generale promossa

DA

C.C., ;

CONTRO

DOTT. M.S., 

NONCHE' CONTRO

- AZIENDA UNITA SANITARIA LOCALE BR/1, ,

- ASSITALIA S.P.A.,;

E

- TORO ASSICURAZIONI S.P.A., 

FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione del 25/06/2004, la Sig.ra C.C. conveniva in giudizio la ASL BR/1 ed il dott. M.S. esponendo che in data 25/11/2002, la stessa subiva presso l'Ospedale "A. Di Summa di Brindisi", un intervento chirurgico per eliminare una patologia di ernia discale L3-L4 intra foraminale destra".

Deduceva, altresì, che l'operazione veniva eseguita dal dott. M. M. e l'anestesia le veniva praticata dal dott. M.S., con intubazione tracheale n.7,5 armato.

Alle ore 11.30 la paziente rientrava in reparto.

All'improvviso, alle ore 13.10 circa, cominciava a lamentare difficoltà respiratorie e rigonfiamento acuto di collo e volto; di conseguenza veniva richiesto dal personale medico RX torace e letto per sospetto enfisema sottocutaneo.

Alle ore 13.15, la Sig.ra C. veniva trasferita in neuro rianimazione.

Gli esiti degli accertamenti avevano appurato che tale nuova patologia era stata determinata dalla rottura della trachea, conseguente all'anestesia; tale rottura, in particolare si era verificata nella porzione anteriore della trachea, interessando, quindi, la parte cartilaginea e non quella membranosa, attraverso lesione longitudinale posta al 5°- 6° livello, quando, invece, al momento dell'ingresso in ospedale, l'esame obiettivo della Sig.ra C. evidenziava un polmone normo espanso e normo espansibile.

Pertanto, l'attrice attribuiva l'evento a colpa medica del dott. M.S. ed esibiva al momento della costituzione in giudizio perizia di parte a firma del dotto Prof. Franco Faggiano da Lecce, il quale individuava nell'accaduto una ben precisa responsabilità dell'anestesista.

La Sig.ra C concludeva per l'accertamento e declaratoria di responsabilità del dott. S. con relativa condanna di quest'ultimo e della AUSL BR/1, in solido, per l'importo di € 19.565,42 ovvero alla somma maggiore o minore da accertarsi in corso di causa, oltre interessi dal 24/02/2004 al soddisfo e spese e competenze di causa.

Si costituivano in giudizio il dott. M.S. e la AUSL Br/1, i quali impugnavano e contestavano l'atto introduttivo del giudizio e chiedevano essere autorizzati alla chiamata in garanzia delle rispettive compagnie di assicurazione, poi costituitesi in giudizio.

La domanda è fondata in parte qua.

1. Natura contrattuale della responsabilità medica

Come noto, il medico risponde sulla base delle regole della responsabilità contrattuale, e ciò, quand'anche, come nel caso di specie, difetti un vero e proprio contratto quale momento genetico del rapporto professionista­ - paziente.

Ciò, in virtù del c.d. contatto sociale che s'instaura tra il paziente ed il medico, chiamato ad adempiere nei confronti del primo la prestazione dal medesimo convenuta con la struttura sanitaria.

In tale contatto, rinviene la propria fonte un rapporto il cui contenuto non consiste nella «protezione» del paziente, bensì in una prestazione che si modella su quella del contratto d'opera professionale e alla quale il medico è tenuto, in virtù dell'esercizio della propria attività nell'ambito dell'ente ospedaliero.

Ne consegue che, data l'assenza di un contratto formale, il paziente non può invero pretendere la prestazione sanitaria dal medico.

Nondimeno, qualora il medico in qualche modo intervenga (ad es., in quanto al riguardo tenuto nei confronti dell'ente ospedaliero), l'esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto paziente-medico) non può essere differente, nei contenuti, da quella che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico (v. Cass., 22 gennaio 1999, n. 589).

Peraltro, il suindicato principio può essere esteso a qualunque soggetto che eserciti una professione c.d. protetta (cioè una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato), specie, quando l'esercizio della stessa incida su beni costituzionalmente garantiti, come accade in relazione all'attività medica, che incide sul bene "salute" tutelato ex art. 32 Cost.

Nell'ipotesi del contatto sociale, deve escludersi la configurabilità di una responsabilità di tipo aquiliano, prefigurandosi, invece, una responsabilità di tipo contrattuale.

Infatti, la responsabilità sia del medico che dell'ente ospedaliero derivano eziologicamente dall'inadempimento delle obbligazioni ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c.

Quanto alla diligenza cui è tenuto il professionista, dal combinato disposto di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c. si desume che "la diligenza richiesta è non già quella ordinaria, del buon padre di famiglia (cfr. Cass., 13 gennaio 2005, n. 583) bensì quella ordinaria del buon professionista (v. Cass., 31 maggio 2006, n. 12995), e cioè la diligenza normalmente adeguata in ragione del tipo di attività e alle relative modalità di esecuzione" (1) .

Viene, dunque, in rilievo un modello standard di condotta che implica (al di là della veste specifica del professionista) il ricorso ad un adeguato sforzo tecnico, con conseguente impiego di tutte quelle energie e di quei mezzi abitualmente ed obiettivamente necessario, anche solo semplicemente utili, in relazione alla natura dell'attività esercitata; ciò, al duplice fine di soddisfare l'interesse creditorio e di evitare possibili eventi dannosi.

Quanto ai limiti operativi di tale responsabilità, operano quelli tipici della responsabilità contrattuale,  essendo sufficiente al fine del riconoscimento della stessa, anche la colpa lieve del debitore, ovvero il difetto dell'ordinaria diligenza.

Infatti, la limitazione di responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c. opera limitatamente alle ipotesi che presentano problemi tecnici di particolare difficoltà, in ogni caso attenendo esclusivamente all'imperizia e non anche all'imprudenza e alla negligenza.

Invero, al riguardo, è consolidato il principio per cui quando l'intervento da cui e' derivato il danno non e' di difficile esecuzione la dimostrazione, da parte del paziente, dell'aggravamento della sua situazione morbosa o l'insorgenza di nuove patologie e' idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all'inadeguata o negligente prestazione, spettando all'obbligato fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente, e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (v. Cass. 21/12/1978, n. 6141; Cass. 16/11/1988, n. 6220; 11/3/2002, n. 3492).

Più specificamente, deve ritenersi che l'onere della prova sia ripartito tra le parti nel senso che spetta al medico provare che il caso e' di particolare difficolta', e al paziente quali siano state le modalita' di esecuzione in idonee; ovvero a quest'ultimo spetta provare che l'intervento e' di facile esecuzione e al medico che l'insuccesso non sia dipeso da suo difetto di diligenza (v. Cass., 19/4/2006, n. 9085; Cass., 11/11/2005, n. 22894; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., 16/2/2001, n. 2335; Cass., 19/5/1999, n. 4852; Cass., 4/2/1998, n. 1127).

Quanto al grado di diligenza esigibile dallo specialista, quali devono considerarsi, nel caso di specie, i medici che hanno eseguito e che hanno avuto modo di prendere visione dell'esame diagnostico "va esaminata non già con minore ma semmai al contrario con maggior rigore ai fini della responsabilità professionale, dovendo aversi riguardo alla peculiare specializzazione e alla necessità di adeguare la condotta alla natura e al livello di pericolosità della prestazione (cfr., con riferimento al medico sportivo, Cass., 8 gennaio 2003, n. 85), implicante scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale (cfr. Cass., 13 gennaio 2005, n. 583).

Orbene, nel caso di specie, giova precisare quanto segue.

All'udienza del 2/10/2009 veniva ascoltato il dott. N.M., che aveva eseguito l'intervento per l'asporto dell'ernia discale, il quale sostanzialmente si riportava al contenuto della cartella clinica.

Passando alla disamina delle risultanze di ctu, il Consulente nel proprio elaborato peritale, così argomenta: " ... Deve tuttavia riconoscersi e ribadirsi la esistenza del nesso causale certo tra l'intubazione/estubazione oro tracheale e la rottura della trachea.

In proposito deve specificarsi, come si è già avuto modo di accennare, la rottura iatrogena della trachea è complicanza propria delle manovre di intubazione/estubazione quale la paziente fu sottoposta.

E' ovvio che la indicazione relativa alla probabilità del verificarsi dell'evento, nulla specifica in ordine ai comportamenti.

Quel che si vuole affermare è che pur in presenza di una complicanza codificata e nota, il suo verificarsi non rientra di fatto nella cosiddetta alea terapeutica, ma può essere funzione - così come è da ritenersi nel caso di specie - di un comportamento inadempiente.

In merito è doveroso ribadire che la Sig.ra Conte non era portatrice di nessuna delle condizioni prima richiamate che, di per loro, sono fattori di rischio aggiuntivi per i! verificarsi della lesione tracheale e pertanto, con argomentare di tipo deduttivo, deve ritenersi che la discontinuazione fu funzione di un atto commissivo incongruo, così come precedentemente indicato.

E' evidente che nella specie non vi è possibilità di indicare con in equivoca certezza quale fu il momento produttivo dell'evento; ciò nondimeno, per quanto argomentato, deve ritenersi assolutamente più probabile che esso rientri nell'ambito di una non corretta applicazione delle lege artis".

Peraltro, nel caso di specie, sotto il profilo dell'eventuale ricorrenza di fattori alternativi con incidenza causale concorrente o esclusiva, non sono state rilevate patologie polmonari associate, né processi infiammatori cronici del parenchima e dei bronchi, idonee a causare ovvero anche solo contribuire alla causazione dell'evento; né, a livello di anamnesi patologica remota, nella cartella clinica vengono menzionate patologie croniche pregresse del distretto bronco polmonare.

Dunque, può ritenersi accertato che l'evento, sub specie di una rottura della porzione anteriore della trachea fu causato da un comportamento inadempiente del S., sub specie di "un atto commissivo incongruo".

Ciò, secondo un giudizio, ex post, di verosimiglianza o di elevata probabilità che - diversamente da quanto richiesto ai fini dell'accertamento del nesso di causalità in sede penale - non richiede il raggiungimento della soglia del 100 per cento.

Peraltro, in via interpretativa, e' stato condivisibilmente affermato che "in tema di responsabilità professionale medica, posto che la prevedibilità e prevedibilità, vanno determinate in concreto, tenendo presenti tutte le circostanze in cui il soggetto si trova ad operare ed in base al parametro relativistico dell'agente modello, l'homo eiusdem condicionis et professionis, considerando le specializzazioni ed il livello di conoscenze raggiunto in queste, deve ritenersi la responsabilità del medico quando l'errore professionale trovi origine nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell'uso dei mezzi manuali o strumentali d'indagine o di terapia che il medico deve essere sicuro di poter adoperare correttamente (nella fattispecie è stata ritenuta esistente la responsabilità del medico anestesista che ebbe a provocare un'ampia lacerazione tracheo bronchiale a causa di un errore tecnico nella manovra di intubazione con il tubo di Carlens)" (cfr.Trib. Genova 30 gennaio 2003 n.1486).

Deve, pertanto, ritenersi l'esistenza della responsabilità medica del dott. M.S., a titolo di colpa professionale.

2. L'inadempimento della struttura e la natura contrattuale della responsabilità.

In primis, quanto alla natura giuridica della responsabilità de qua, quella dell'ente convenuto è da ascriversi al paradigma contrattuale, in quanto "l'accettazione del paziente in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporla la conclusione di un contratto di prestazione d'opera atipico di spedalità, essendo essa tenuta ad una prestazione complessa che non si esaurisce nella prestazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) già prescritte dalla L. n. 132 del 1968, arl. 2, ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle lato sensu alberghiere" (cfr. Cass., civ., 19 ottobre 2006, n. 22390; Cass., civ., 24 maggio 2006, n. 12362).

Ciò premesso, la responsabilità dell'ente ospedaliero ricorre

1) sia, ex art. 1218 c.c., in relazione a propri fatti d'inadempimento (ad es., in ragione della carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione di medicinali o del personale medico ausiliario e paramedico, o alle prestazioni di carattere alberghiero),

2) sia, ex art. 1228 c.c., per quanto concerne il comportamento specifico - dei medici dipendenti, dal momento che il debitore che, nell'adempimento dell'obbligazione si avvale dell'opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, per quanto non siano alle proprie dipendenze.

Ovviamente, si tratta di una responsabilità per fatto dell'ausiliario o preposto dalle caratteristiche peculiari in quanto "prescinde dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato del medico con la struttura (pubblica o privata) sanitaria, essendo irrilevante la natura del rapporto tra i medesimi sussistente ai fini considerati, laddove fondamentale rilevanza assume viceversa la circostanza che dell'opera del terzo il debitore originario comunque si avvalga nell'attuazione del rapporto obbligatorio" (Cass., civ., sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, cit.).

Da ciò la configurabilità di una responsabilità contrattuale della struttura per il fatto non solo del personale medico, dipendente, ma anche di quello meramente ausiliario.

Ciò spiega l'abituale richiamo del principio generale - tipico della responsabilità delle strutture organizzative - cuius commoda eius etiam incommoda; la responsabilità dell'ente traendo origine non già da un profilo di colpa nella scelta degli ausiliari o nella vigilanza, bensì dal rischio insito nell'utilizzazione di terzi, nell'adempimento delle obbligazione, gravanti sulla propria sfera giuridica (Cass., civ., 17 maggio 2001, n. 6756; Cass., civ., 30 dicembre 1971, n. 3776. Si veda anche Cass., civ., 4 aprile 2003, n. 5329).

Né la responsabilità dell'ente incontra il limite del fatto doloso del soggetto agente, quale fatto idoneo a interrompere il rapporto in base al quale l'ente è chiamato a rispondere, dal momento che, ai fini della responsabilità dell'ente, non si richiede un nesso di causalità in senso stretto, ma é sufficiente una mera occasionalità necessaria (Cass., civ., 17 maggio 2001, n. 6756; Cass., civ., 15 febbraio 2000, n. 1682).

In origine, la responsabilità della struttura ospedaliera era modulata su quella del medico-paziente, ragione per cui si considerava indefettibile presupposto della stessa l'accertamento di un comportamento, imputabile () (colposo o doloso), del medico operante presso la stessa.

Più recentemente, invece, il rapporto intercorrente fra il paziente e la . struttura ospedaliera è stato ricostruito, in via autonoma, da quello paziente­ medico, individuandosi il fondamento giustificativo dello stesso, in un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (il già menzionato contratto di spedalità, in virtù del quale, la struttura deve fornire al paziente una prestazione "articolata", definita genericamente di "assistenza sanitaria", ricomprensiva, oltre che della prestazione principale medica, anche di una serie di obblighi di protezione ed accessori che rinvengono, nella buona fede oggettiva, ex artt.1375-1175 c.c., la propria ragion di essere).

Da ciò l'affermarsi di un modello di responsabilità che prescinde dall'accertamento di un condotta negligente dei singoli operatori e che trova, invece, la propria fonte, nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all'ente.

Questo revirement interpretativo ha trovato un autorevole avallo nella citata sentenza delle Sezioni Unite (1.7.2002 n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici: Cass. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006).

Ricostruita in termini contrattuali la responsabilità della struttura sanitaria, nel rapporto con il paziente, il riparto dell'onere probatorio risponde ai criteri, enucleati al riguardo dalle Sezioni Unite, con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento (vedasi anche SS.UU. 28.07.2005, n. 15781), secondo cui, il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale e per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.

Analogo principio è stato enunciato con riguardo all'inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.

Ciò premesso, l'inadempimento rilevante ai fini dell'azione risarcitoria, f) almeno in relazione alle obbligazioni C.d. di mezzo, non è qualunque ~ inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno; competerà poi al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.

Nel caso de quo, l'attrice ha provato l'esistenza di un contratto di assistenza sanitaria (o di spedalità) e l'inadempimento della struttura che risponde per il fatto del S., in quanto suo dipendente.

Il danno non patrimoniale da contratto

La risarcibilità del danno non patrimoniale, correlato all'inadempimento di un'obbligazione, ha costituito profilo controverso fino alle Sezioni Unite dell'11 novembre 2008, per quanto talune pronunce, ad esse anteriori, avessero lasciato un margine di apertura all'ammissibilità del suddetto danno. 

In particolare, Cass., civ., 9 novembre 2006, n. 23918, aveva tendenzialmente escluso il risarcimento del danno non patrimoniale, con riferimento all'ambito della responsabilità contrattuale, indicando l'art. 2087 c.c., in materia di lavoro subordinato, quale eccezione alla suddetta regola.

Ciò anche in considerazione della mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all'art. 2059 c.c. dettato in materia di fatti illeciti.

Peraltro, venendo in rilievo la lesione di beni di dignità costituzionale, quali quelli di cui agli artt. 2, 32, 13 Cost., si prefigurava l'applicazione, in aggiunta al regime dell'inadempimento contrattuale, della disciplina in materia di illecito aquiliano, secondo il principio del cumulo dei titoli di responsabilità.

Orbene, le Sezioni Unite dell'11 novembre 2008, in armonia con le conclusioni in materia di danno non patrimoniale - ricostruito quale un'unica grande categoria di cui il danno esistenziale rappresenterebbe una mera variante descrittiva - pervengono alla soluzione diametralmente opposta.

La Suprema Corte, ripercorrendo l'iter evolutivo in materia, ricorda come, al fine di superare l'ostacolo dato dall'assenza, nell'ambito della materia contrattuale di una norma di contenuto analogo all'art. 2059 c.c., la giurisprudenza (avesse) elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell'esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).

Nondimeno, il cumulo non era idoneo a giustificare il risarcimento del danno non patrimoniale, al di fuori delle ipotesi di espressa tipizzazione dello stesso in virtù dei ristretti limiti desumibili dal combinato disposto degli artt. 2059 e 185 C.p., per cui il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.

Ciò premesso, secondo le Sezioni Unite, l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. consentirebbe di sostenere che "anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali'.

A tal riguardo, la pronuncia richiama il principio dell'indefettibilità del riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, di quella tutela, minima, costituita dal risarcimento; tutela che, quando questi siano stati lesi, dovrebbe essere assicurata, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale". Ne consegue che é ammissibile far rifluire il danno non patrimoniale "nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni.

D'altronde, nonostante la mancanza di un'espressa previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale in materia contrattuale, è richiamabile, pur sempre, la previsione dell'art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

Dalla suddetta norma, è deducibile "la libera deducibilità nell'ambito di un regolamento contrattuale di valori non strettamente patrimoniali, ma afferenti la persona".

Inoltre, l'inerenza al programma contrattuale, per quanto non espressamente dedotti, di interessi a contenuto non patrimoniale discenderebbe anche dall'applicazione della C.d. causa concreta del negozio "da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006)".

Dunque, le Sezioni Unite aderiscono alla più recente ricostruzione dogmatica della causa del contratto (intesa quale finalità pratica in concreto perseguita) ed "elaborata al fine di riconoscere tutela agli interessi effettivamente perseguiti dalle parti con l'adozione di un certo modello contrattuale, il cui schema normativo, dunque, non è più idoneo a delimitare, in via esclusiva, l'ambito degli interessi suscettibili di tutela per il tramite dello strumento contrattuale".

Inoltre, esiste un legame inscindibile fra la C.d. causa in concreto e la fattispecie dei "c.d. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario".

Poichè la causa concretamente perseguita attraverso i contratti "sanitari" consiste "nell'attuazione della tutela della sfera della salute in senso ampio", l'inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del medico é idoneo a ledere "diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali”

3. I danni risarcibili

Peraltro, è ovvio che dovendo il danno non patrimoniale essere sempre oggetto di accertamento, seppur in via presuntiva, ad essere risarcibile nel caso di specie non è la mera violazione del diritto inviolabile all'autodeterminazione dell'attrice, ma solo il pregiudizio areddituale, riconducibile eziologicamente a tale mancata scelta.

Ciò premesso, è noto come le Sezioni Unite dell' 11,11.2008 abbiano degradato il danno biologico a mera componente descrittiva della più ampia categoria del danno non patrimoniale.

Esso va inteso come menomazione dell'integrità psico-fisica in sè e per sè considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione.

Tale voce di danno, come precisato dalla Corte Costituzionale, n. 1841'86, non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza del danneggiato, con il conseguente paradosso, al contempo, dell'irrisarcibilità del danno biologico, subito da chi sia sprovvisto di un'attività lavorativa e della commisurazione del danno all'occupazione del soggetto o, persino ­secondo un'inammissibile visione della società, rigidamente ripartita per classi - dei genitori.

Come espressamente affermato anche dall'art. 139 del Codice delle Assicurazioni, per danno biologico deve, invece intendersi "la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-re/azionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito".

Ciò premesso, il danno biologico consistente nella violazione dell'integrità psico-fisica della persona va considerato ai fini della determinazione del risarcimento, sia nel suo aspetto statico (diminuzione del bene primario dell'integrità psico-fisica in sè e per sè considerata) sia nel suo aspetto dinamico (manifestazione o espressione quotidiana del bene salute).

Orbene, l'espletata consulenza medico-legale, ha consentito di acclarare la entità delle lesioni riportate dall'attrice.

Il Ctu ha accertato che, in conseguenza dell'inadempimento de quo, l'attrice ha subito lesioni permanenti nella misura del 4%.

Secondo il C.T.U., alla Sig.ra C. devono essere attribuiti gg. 15 di invalidità temporanea totale ed una invalidità permanente del 4%.

Le conclusioni del medico legale sul danno non patrimoniale di tipo biologico sono condivise dal Tribunale, in quanto basate su un completo esame anamnestico e su un obiettivo, approfondito e coerente studio della documentazione medica prodotta, valutata con criteri medico-legali immuni da errori e vizi logici.

Quanto all'ulteriore figura descrittiva di danno non patrimoniale del danno morale - dalla stessa pronuncia dalle Sezioni Unite del 2008 disancorato dal dato temporale, con conseguente abbandono dello schematismo concettuale per cui il danno morale deve essere necessariamente transeunte giovino le seguenti considerazioni.

In primis, non può accedersi alla tesi, frutto di un'interpretazione riduttiva delle Sezioni Unite, secondo cui il danno morale, nell'ipotesi di una sua derivazione "biologica" non sarebbe voce autonomamente rlsarcibile, rispondendo le due figure descrittive alla tutela di beni giuridici distinti, come, peraltro, evincibile anche dalle scelte della legislazione speciale.

Tal ultima, spesso, (si pensi, ad esempio, al Decreto del Presidente della Repubblica 30 ottobre 2009, n. 181 che introduce un Regolamento recante i criteri medico-legali per l'accertamento e la determinazione dell'individualità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma dell'articolo 6 della legge 3 agosto 2004, n. 206) non solo continua a distinguere le due categorie di danno ma contiene una nozione legale di danno morale.

Ciò premesso, e affermata l'astratta risarcibilità del danno morale anche quando sia ravvisabile un pregiudizio all'integrità psico-fisica, nel caso concreto nulla può essere riconosciuto a titolo di danno morale.

Non può, infatti, obliterarsi come secondo le Sezioni Unite del 2008, una delle ipotesi in cui il danno non patrimoniale è considerato risarcibile, al di là della lesione di un diritto costituzionalmente garantito, è proprio quella del danno morale da reato (quali sono le lesioni colpose, derivanti da un sinistro stradale).

In tale circostanza è risarcibile qualunque pregiudizio areddituale (e, quindi, anche la sofferenza derivante eziologicamente dal non poter più fare), anche se derivante dalla lesione di un interesse privo di rilievo costituzionale, purché suscettibile di superare il generale vaglio di meritevolezza ex art. 2043 c.c ..

Infatti, la tipicità, in questo caso - affermano le Sezioni Unite - non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma dalla stessa scelta del legislatore di considerare risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato.

Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.

Nell'ipotesi di reato assume dignità risarcitoria l'impossibilità (totale o parziale) di svolgere una qualunque delle attività realizzatrici della persona, quand'anche non ne sia possibile un ancoramento costituzionale (attività ludiche, sportive, ricreative ..... ).

Ciò premesso, nel caso di specie, è ravvisabile una fattispecie di reato e, dunque, non trova applicazione il generale principio della necessaria rilevanza costituzionale del diritto leso, quale condizione di risarcibilità del danno non patrimoniale di tipo morale.

Si ritiene opportuno applicare, al caso di specie, ai fini della valutazione del danno individuato non patrimoniale (di tipo biologico e morale), le tabelle di Milano, in quanto strutturate e concepite - diversamente dalle attuali Tabelle di Lecce - in funzione del nuovo inquadramento concettuale del danno non patrimoniale, quale categoria unitaria, cui sono approdate le Sezioni Unite dell'11.11. 2008.

Né la maggiore o minore diffusione delle stesse presso i tribunali locali - a fronte della prevalenza statistica delle tabelle milanesi sul territorio nazionale - può costituire ragione sufficiente ad impedirne l'applicazione nel caso di specie.

D'altronde, come affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza del 2011, n. 12408, alle tabelle milanesi deve riconoscersi "una sorta di vocazione nazionale", anche perché, coi valori da esse tabellati, esprimono il valore da ritenersi "equo", e cioe' quello in grado di garantire la parita' di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entita'.

Ciò, al punto che l'applicazione delle suddette tabelle sarebbe oggetto di un vero e proprio uso normativo.

Le nuove Tabelle - approvate il 28 aprile 2009 e aggiornate nel 2013 ­presentano profili di innovatività rispetto alle precedenti tabelle quanto alla liquidazione del danno permanente da lesione all'integrità psico-fisica. Infatti, esse individuano il nuovo valore del c.d. "punto" muovendo dal valore del "punto" delle Tabelle precedenti (connesso alla sola componente di danno non patrimoniale anatomo-funzionale, c.d. danno biologico permanente), aumentato in riferimento all'inserimento nel valore di liquidazione "medio" anche della componente di danno non patrimoniale relativa alla "sofferenza soggettiva" di una percentuale ponderata (dall'1 al 9% di invalidità l'aumento è del 25% fisso, dal 10 al 34 % di invalidità l'aumento è progressivo per punto dal 26% al 50%, dal 35 al 100% di invalidità l'aumento torna ad essere fisso al 50%), e prevedendo inoltre percentuali massime di aumento da utilizzarsi in via di c.d. personalizzazione.

Applicando le predette tabelle, il danno da invalidità permanente subito dall'attrice deve essere quantificato in euro:

€ 4.760,00 che discendono dal valore del "punto", relativo al danno non patrimoniale, ovvero € 1.724,58, moltiplicato per il numero dei punti di invalidità (4), applicato il demoltiplicatore correlato all'età, al momento del sinistro, pari a 63 anni).

Quanto, invece, al calcolo del danno da inabilità temporanea, in applicazione dei suddetti valori tabellari e considerato che il risarcimento per ogni giorno di invalidità assoluta è pari ad euro 96,00, si quantifica in:

a) € 1440,00, l'ITT, giorni 15; per complessivi euro 6200,00, oltre interessi di legge.

Nondimeno, la condanna deve essere ridotta nella minore misura indicata dall'attrice, in sede di precisazione delle conclusioni, pari ad euro 5.719,39.

Essendo stato il danno liquidato alla stregua di criteri e valori aggiornati al 2011, non va accordata la rivalutazione, altrimenti, avendosi un'indebita duplicazione del risarcimento.

Alla condanna della Asl consegue quella della Assitalia, terza chiamata a tenere indenni la prima di tutte quelle somme che é tenuta a pagare in favore dell'attrice, a qualunque titolo.

Quanto alla posizione della Toro Ass.ni, risulta che la stessa, con la polizza professionale n. 116/59/00802925, ha assicurato il Dr. M.S. per la responsabilità civile verso terzi nella sua qualità di dipendente sanitario dell'Ospedale Perrino di Brindisi, per la sua attività in anestesiologia e rianimazione.

Nondimeno, nel frontespizio della polizza l'assicurato ha sottoscritto la seguente condizione riportata sub lettera H: "Assicurazione di dipendente di un Ente ospedaliero pubblico "a secondo rischio" rispetto alla polizza di responsabilità di tale suo datore di lavoro".

Si tratta quindi di una manleva da parte della Toro a "secondo rischio" e cioè operante solo nel caso in cui la polizza che assicura i dipendenti della AUSL BR1 non sia sufficiente a garantire il proprio dipendente Dr. Semeraro dalle richieste risarcitorie di terzi.

Orbene, consta ex actis che, all'udienza del 17.10.2008, il difensore dell'Assitalia ha prodotto in giudizio la polizza n. 019/60/202123 stipulata dall'ex Azienda Ospedale Di Summa con l'lna Assitalia.

Da tale documento risulta che la polizza copre i propri dipendenti sanitari dalla responsabilità civile verso terzi per morte e per lesioni personali con un massimale per ogni persona deceduta o ferita ben superiore al danno accertato in questo giudizio.

Pertanto, acclarata la responsabilità dell'Ente ospedaliero e del Dr. S., nonchè l'operatività della copertura assicurativa dell'lna Assitalia, deve ritenersi che la polizza della Toro Ass.ni non potesse essere attivata essendo la garanzia prestata "a secondo rischio".

Riguardo infine alla efficacia e alla tempestività della denunzia di sinistro fatta all'Assitalia dalla AUSL la teste R.Z., sentita all'udienza del 2.10.2009, ha dichiarato: "Preciso che secondo la C.d. clausola Broker richiamata in detta nota (art. 1.16 delle Condizioni Generali di Assicurazione) la denuncia del sinistro è avvenuta tempestivamente e regolarmente".

Le spese, comprese quelle di CTU, seguono la soccombenza e si liquidano nell'importo in dispositivo fissato

PQM

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, sulla domanda proposta da C.C. nei confronti di M.S., nonché nei confronti di Azienda Unità Sanitaria Locale BR/1, Assitalia S.P.A., Toro Assicurazioni S.P.A., così provvede:

1) accerta e dichiara la responsabilità del dott. M.S. per le lesioni subite dall'attrice;

2) per l'effetto, condanna in solido il dott. M.S. e l'Azienda AUSL BR/1, al risarcimento dei danni subiti dall'attrice, quantificati in euro 5.719,39, oltre interessi dal 24/02/2004 fino al soddisfo.

3) condanna i convenuti al pagamento delle spese e competenze di causa, liquidate in complessivi euro 2800,00, oltre lva e Cap;

4) nei rapporti fra convenuti e terzi chiamati:

4a) condanna Assitalia S.P.A., a tenere indenni l'Asl di tutte quelle somme che é tenuta a pagare in favore dell'attrice, a qualunque titolo;

4b) condanna Assitalia S.P.A., al pagamento delle spese e competenze di causa, in favore dell'Asl convenuta, liquidate in complessivi euro 2500,00, oltre lva e Cap e spese generali come per legge;

4c) compensa le spese fra il S. e la Toro Assicurazioni;

5) pone, definitivamente, le spese della CTU medico-legale, a carico di Assitalia S.P.A ..

Brindisi, 24.5.2013

ILGIUDICE (Antonio Ivan Natali)