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La responsabilità del chirurgo sussiste anche in caso di successivo intervento correttivo.

La non corretta esecuzione del primo intervento chirurgico ha una sua rilevanza ai fini risarcitori laddove abbia determinato un notevole allungamento dei tempi di guarigione e reso necessario un secondo intervento correttivo.

Tribunale di Brindisi - Sezione Unica civile, dott. Pietro Lisi – Sentenza n. 1237 del 2 ottobre 2013.

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REPUBBLICA ITALIANA

In Nome Del Popolo Italiano

IL TRIBUNALE DI BRINDISI

Sezione Unica Civile

in composizione monocratica nella persona del Giudice Unico dott. Pietro Lisi ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta sotto il numero d'ordine 2470 del Ruolo Generale degli Affari Contenziosi dell'anno 2005, promossa da:

S.G., ,                                                                          - attore-

CONTRO

A.U.S.L. BR/l, in persona del legale rappresentante p.t., - convenuta

Le conclusioni sono state precisate all'udienza del 23.4.2013, il cui verbale deve intendersi qui integralmente riportato e trascritto.

FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato S.G. conveniva in giudizio innanzi a questo Tribunale la Ausl Br/I, chiedendo:

I) accertare e dichiarare la responsabilità della convenuta per i danni subiti da attore, in quanto costretto a subire due interventi chirurgici della medesima specie per le ragioni di cui in premessa;

2) conseguentemente condannare la Ausl Br/I al risarcimento dei danni patiti da esso attore, morali, materiali, biologici, esistenziali ed alla vita di relazione, nella misura di euro 400.000,00, o in quell'altra maggiore o minore ritenuta di giustizia, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Instaurato il contraddittorio, si costituiva la Ausl Br/l, chiedendo il rigetto della domanda di parte attrice.

La domanda attorea è fondata e merita accoglimento, nei limiti e per i motivi che seguono.

L'attore deduce la responsabilità della convenuta con riferimento ad un primo intervento chirurgico di artoprotesi d'anca destra, eseguito nel novembre 2001 presso l'Ospedale "Di Summa" in Brindisi, eseguito in modo imperito e negligente, tant'è che dapprima residuavano fastidi all'articolazione coxo-femorale e successivamente si verificavano due episodi di lussazione.

Pertanto veniva sottoposto, in data 9.1.02, ad un secondo intervento chirurgico, correttivo del precedente.

Il S. deduceva infine che tale secondo intervento, sebbene avesse migliorato la condizione articolare dell'anca, lo costringeva ad una lunga terapia riabilitativa ed all'uso delle stampelle, tuttora utilizzate per deambulare.

A questo punto giova premettere alcune considerazioni di carattere generale in materia di responsabilità civile della struttura sanitaria.

In primo luogo deve essere ribadito il principio consolidato a mente del quale il rapporto che si instaura tra il paziente e l'ente sanitario ha natura contrattuale.

In particolare, con l'accettazione del paziente nella struttura deputata a prestare assistenza sanitaria ed ospedaliera, ai fini del ricovero o di prestazioni ambulatoriali, sorge un contratto di prestazione d'opera atipico (c.d. contratto di spedalità) che ha ad oggetto, oltre alla prestazione sanitaria stricto sensu intesa, anche la messa a disposizione di personale ausiliario, mezzi tecnici e farmaci e, se del caso, ulteriori prestazioni di carattere alberghiero.

L'ente, in sostanza, si impegna nei confronti del paziente a fornire adeguate prestazioni assistenziali attraverso la predisposizione di strutture e risorse umane efficienti.

Ne deriva, allora, che la responsabilità dell'ente ospedaliero nel confronti del paziente ha natura contrattuale ai sensi dell'art. 1218 c.c. e può derivare sia dall'inadempimento delle obbligazioni poste direttamente a suo carico che, ex art. 1228 c.c., dall'inadempimento della prestazione medico professionale svolta direttamente dal sanitario in qualità di suo ausiliario necessario (cfr., tra le tante pronunce della Suprema Corte, Cass., sez. III, n. 882612007).

La natura contrattuale della responsabilità de qua impone l'applicazione degli ormai noti principi affermati dalle Sezioni Unite sul regime della prova dell'inadempimento (cfr. Cass., S.U., n. 1353312001) secondo i quali il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento, deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento (cfr. ex multis Cass. n. 10297/2004).

Specificamente la Suprema Corte (Cass S.U. 577/08) ha statuito che nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno causato da un errore del medico o della struttura sanitaria, al quale sono applicabili le regole sulla responsabilità contrattuale ivi comprese quelle sul riparto dell'onere della prova, l'attore ha il solo onere - ex art. 1218 c.c. - di allegare e provare l'esistenza del contratto, e di allegare l'esistenza d'un valido nesso causale tra l'errore del medico e l'aggravamento delle proprie condizioni di salute, mentre spetterà al convenuto dimostrare o che inadempimento non vi è stato, ovvero che esso pur essendo sussistente non è stato la causa efficiente dei danni lamentati dall'attore (essendo sopravvenuto, nella serie causale che dall'intervento ha condotto all'evento di danno, un fatto inevitabile o imprevedibile).

Ed ancora "nelle fattispecie di responsabilità contrattuale, la prova dell'assenza di colpa medica grava sempre sul professionista-debitore; quando l'intervento fallito è un' operazione di routine per il sanitario, il paziente è tenuto soltanto a provare il rapporto intercorso con il professionista e si può limitare ad allegare le conseguenze negative". (Cassazione civile, sez. III, 14 febbraio 2008, n. 3520).

Quanto all'accertamento della colpa del sanitario, è d'uopo premettere che la responsabilità colposa postula una condotta che, sebbene non diretta alla produzione dell'evento lesivo, realizza detto evento per effetto della negligente condotta dell'agente.

Alla base della responsabilità colposa vi è allora la violazione di una o più regole cautelari di condotta, violazione che determina un evento lesivo costituente realizzazione specifica del rischio che la norma precauzionale mirava a scongiurare.

Più in particolare, alla base delle norme precauzionali di condotta - siano esse di diligenza, di prudenza o di perizia, abbiano esse un contenuto generico o specifico - vi sono regole di esperienza ricavate da giudizi ripetuti nel tempo sulla pericolosità dei comportamenti umani, e sui mezzi più adatti ad evitarne le conseguenze.

Mezzi che devono essere non già quelli soggettivamente a disposizione dell'agente, bensì quelli oggettivamente imposti - in base alla migliore scienza ed esperienza - a carico di soggetti espletanti un determinato tipo di attività.

Sotto questo profilo, si suole pertanto comunemente affermare che le regole di diligenza proprie dei vari contesti di riferimento rappresentano la "cristallizzazione" dei giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo, non essendo altro la prevedibilità che la possibilità dell'uomo coscienzioso ed avveduto, dell'homo eiusdem professionis et condicionis, di cogliere che un certo evento è legato alla violazione di un determinato dovere oggettivo di diligenza, che un certo evento è evitabile adottando determinate regole di prudenza.

In definitiva, ciò che l'ordinamento rimprovera all'agente è di non aver osservato lo standard di diligenza richiesto dalla situazione concreta, di non avere cioè attivato quei poteri di controllo e di impulso che doveva e poteva attivare, in quel contesto spazio-temporale, al fine di scongiurare l'evento lesivo.

In altre parole, ciò che si rimprovera all'agente è di non avere attivato quelle regole che, sulla base della miglior scienza ed esperienza, gli imponevano - o gli vietavano - un certo tipo di attività.

Al riguardo, in base al combinato disposto di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c. la diligenza richiesta è non già quella ordinaria, del buon padre di famiglia (cfr. Cass., 13/1/2005, n. 583) bensì quella ordinaria del buon professionista (v. Cass., 31/5/2006, n. 12995), e cioè la diligenza normalmente adeguata in ragione del tipo di attività e alle relative modalità di esecuzione.

Nell'adempimento dell'obbligazione professionale va infatti osservata la diligenza qualificata ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, (che costituisce aspetto del concetto unitario posto dall'art. 1174 c.c.: cfr. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 22/12/1999, n. 589), quale modello di condotta che si estrinseca (sia esso professionista o imprenditore) nell'adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell'interesse creditorio, nonché ad evitare possibili eventi dannosi (v. Cass., 31/5/2006, n. 12995).

Al riguardo si è ulteriormente precisato che il criterio della normalità va valutato con riferimento alla diligenza media richiesta, ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell'attività esercitata (cfr. Cass., n. 15255/2005). 

Inoltre la limitazione di responsabilità professionale del medico ai casi di dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c. si applica nelle sole ipotesi che presentano problemi tecnici di particolare difficoltà, in ogni caso attenendo ciò esclusivamente all'imperizia e non anche all'imprudenza e alla negligenza (v. Cass., 19/4/2006, n. 9085; Cass., 14448/2004).

Quanto all' onere probatorio, la Suprema Corte ha osservato che "spetta al medico­ debitore la prova della mancanza di colpa ("sub specie" della sopravvenienza, nella serie causale che dall'intervento ha condotto all'evento di danno, di un fatto inevitabile o imprevedibile), mentre il paziente è tenuto soltanto a provare il rapporto (nella specie, contrattuale) con il professionista e la riferibilità a quest'ultimo dell'intervento, allegando il risultato peggiorativo conseguito". (Cassazione civile, sez. III, 14 febbraio 2008, n. 3520).

Ed ancora "nelle fattispecie di responsabilità contrattuale, la prova dell'assenza di colpa medica grava sempre sul professionista-debitore; quando 1'intervento fallito è un'operazione di routine per il sanitario, il paziente è tenuto soltanto a provare il rapporto intercorso con il professionista e si può limitare ad allegare le conseguenze negative". (Cassazione civile, sez. III, 14 febbraio 2008, n. 3520).

Tanto premesso, si osserva che dall'esame degli atti di causa, ed in particolare dalle risultanze della CTU (il cui contenuto deve intendersi integralmente riportato e trascritto in questa sede, in quanto assolutamente rigorosa sul piano logico-scientifico, priva di lacune o contraddizioni e dunque pienamente condivisibile) è emerso che la condotta tenuta dal personale medico dell'Ospedale "Di Summa" di Brindisi in occasione del primo intervento chirurgico subito dal Saracino (in data 19.11.01) sia stata colposa.

Difatti il CTU ha osservato, in modo condivisibile, che i due episodi di lussazione protesica, subiti dall'attore il 26.11.01 ed il 29.12.01, in quanto verificatisi senza una causa traumatica idonea, in occasione di semplici e banali movimenti dell' anca, sono certamente da ricondursi ad un'incongruenza fra i due elementi dell'impianto protesico.

Tale incongruenza si è verificata, secondo il CTU, in uno dei seguenti modi: o perchè il collo della testina era corto o perché il press-fit dello stelo protesico nel canale diafisario non era efficiente, consentendo così allo stelo di infossarsi.

Quanto al secondo intervento chirurgico, il CTU osserva che esso fu quanto mai  necessario e corretto, in quanto, attraverso la sostituzione dello stelo a press-fit con altro cementato ed attraverso la sostituzione della testina con altra a collo lungo, ripristinò la congruenza fra le superfici articolari proteiche, tant' è che non si verificarono più episodi di lussazione protesica e il Saracino poté riprendere gradualmente a deambulare.

L'uso di una protesi cementata ha indubbiamente esposto l'attore ad un rischio di precoce mobilizzazione della stessa, tant'è che lo specialista ortopedico che lo visitava in data 2.8.05 consigliava un ulteriore intervento di riprotesizzazione, pur in assenza di una significativa sintomatologia dolorosa e di limitazioni funzionali.

Il CTU ha osservato che nel caso di uso di protesi non cementate il rischio di mobilizzazione è più contenuto, ditalchè in conclusione la non corretta esecuzione del primo intervento chirurgico ha determinato un notevole allungamento dei tempi di guarigione, rendendo necessario un secondo intervento correttivo e tre ulteriori anestesie, generali, oltre che la perdita di chance di maggiore durata della protesi, in quanto rendeva necessario l'impianto di uno stelo cementato, maggiormente esposto al rischio di mobilizzazione.

Il consulente ha invece escluso, in modo condivisibile, la sussistenza di un danno di tipo permanente, in quanto il particolare modo di incedere del Saracino e l'uso di un bastone sono da ricondursi, sul piano eziologico, non all'intervento de quo, bensì alla preesistente condizione patologica di "paraparesi da compressione mielo-radicolare".

Passando al profilo del quantum debeatur, per quel che attiene al danno C.d. biologico, reputa il decidente di aderire al più recente arresto del S.C. (SS.UU. n. 26972/08), a termini del quale l'area del danno risarcibile va anzitutto ricondotta nell'ambito delle due sole categorie del danno patrimoniale (art. 2043-1218 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), ambito, quest'ultimo, nel quale deve ora ritenersi collocato il danno biologico.

Invero, deve ritenersi superata - alla luce di una lettura dell'art. 2059 c.c. in chiave costituzionalmente orientata - la tesi (Corte Cost. n. 184/86) che ammetteva il risarcimento del danno biologico sulla base del collegamento tra l'art. 2043 c.c. (nel quale si faceva rientrare tale voce di danno) e l'art. 32 Cost.

Operazione ermeneutica, quest'ultima, che veniva effettuata al fine di sfuggire alla altrimenti non risarcibilità del danno non patrimoniale, in una lettura riduttiva dell'art. 2059 c.c, ancorata unicamente alla sussistenza di specifiche previsioni legislative che ne ammettevano la risarcibilità (art. 185 c.p; 1. n. 117/87, ecc.).

Viceversa, all'esito di un condiviso iter logico-argomentativo, le SS.UU. cennate hanno affermato il principio secondo il quale "il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/99), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 1502712005; n.2391812006)".

Ciò detto, in via generale, le SS.UU. cennate hanno altresì chiarito che il risarcimento del danno non patrimoniale deve ritenersi applicabile anche ai casi in cui la fonte del rapporto è di tipo contrattuale.

La qual cosa viene in rilievo proprio nel caso in esame, operando qui una tipica ipotesi di c.d. contratto di protezione (sub specie di contratto sanitario concluso tra la Quaranta e l'allora Azienda Ospedaliera "A. Di Summa"), il cui interesse "attiene alla tutela della salute in senso ampio di guisa che l'inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali" (SS.UU. cit.).

Ciò detto, rileva altresì il decidente, in armonia al suddetto arresto giurisprudenziale, che "determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo.

Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza".

In termini ulteriormente confermativi, Cass. SS.UU. 14.1.2009, n. 557 ha confermato le SS.UU. U.C, ribadendo che "il C.d. "danno esistenziale" non costituisce un'autonoma categoria di danno e tutti i danni non patrimoniali devono essere ricondotti nell'ambito della previsione dell'art. 2059 c.c ..

Applicando ora tali coordinate alla fattispecie in esame, si osserva che il consulente d'ufficio ha ritenuto che l'errato intervento chirurgico determinava un maggior periodo di inabilità temporanea totale pari a sessanta giorni ed un maggior periodo di inabilità temporanea parziale di giorni trenta.

Ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale in favore dell'attrice, si reputa corretto applicare le Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale per l'anno 2013 in uso presso il Tribunale di Milano, in quanto pienamente condivisibili nei principi ispiratori e nella metodologia utilizzata.

Inoltre la Suprema Corte in una recente pronuncia ha osservato che "i valori di riferimento per la liquidazione del danno alla persona adottati dal Tribunale di Milano, dei quali è già riconosciuta nei fatti una sorta di vocazione nazionale, costituiscono d'ora innanzi, per la giurisprudenza di questa Corte, il valore da ritenersi "equo", e cioè in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entità" (Cass., sez. III, n. 12408/2011).

Si ritiene che non possa trovare applicazione al caso di specie l'art. 3 del d.l. n. 158/12 (convertito nella legge 189 del 2012), che ha previsto che in caso di lesioni micropermanenti derivanti da colpa medica si applichino le tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni in tema di sinistri stradali, in ragione della irretroattività di tale norma.

Secondo l'opzione interpretativa preferibile, infatti, tale norma ha natura sostanziale (come peraltro rilevato in caso analogo da Cass.sez. III n. 11048 del 2009, laddove è stato ritenuto che, per un sinistro stradale verificatosi prima della entrata in vigore del codice delle assicurazioni non potevano applicarsi i criteri di liquidazione con detta normativa introdotti, in quanto costituenti una deroga ai principi dell'art. 2056 cod. civ.) in mancanza peraltro di norma transitoria sul punto (v. in questo senso Trib. Pisa, 27.2.13).

Pertanto, spettano all' attore le seguenti somme determinate sulla base delle ridette tabelle in uso presso il Tribunale di Milano, che si condividono pienamente anche con riferimento alle note illustrative che le precedono ed alle quali si fa espresso rinvio:

euro 7.200,00 a titolo di danno non patrimoniale temporaneo (applicando un valore pari a euro 96,00 per ciascun giorno di invalidità temporanea al 100%);

Tale importo è liquidato al valore attuale, atteso che le tabelle di liquidazione danni cui si è fatto complessivamente riferimento (Tribunale Milano) sono aggiornate al 2013.

Con riferimento alla perdita di chance di maggiore durata della protesi, per effetto dell'impianto di una cementata, si ritiene congruo liquidare, in via equitativa, l'ulteriore somma di euro 2.000,00, pervenendosi così alla complessiva somma di euro 9.200,00.

Dal dì della pubblicazione della presente decisione e fino al soddisfo, spettano all'attore gli interessi legali su tale somma, operando la conversione da debito di valore in debito di valuta.

Il notevole ridimensionamento della pretesa attorea (il S. in citazione richiedeva una somma pari a euro 400.000,00 a titolo di risarcimento dei danni subiti) giustifica la compensazione delle spese di lite in misura della metà.

Spese di CTU a definitivo ed integrale carico della convenuta.

P. Q. M.

Il Tribunale di Brindisi, in persona del Giudice Unico dott. Pietro Lisi, definitivamente pronunciando nella causa n. 2470/2005 R.G., ogni diversa istanza, deduzione o eccezione disattesa, così provvede:

- condanna la Ausl Br/I al pagamento, in favore di S.G., della complessiva somma di euro 9.200,00, oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente decisione fino al soddisfo;

- condanna la convenuta alla rifusione delle spese di lite sostenute dall'attore in ~ misura della metà, compensandole per il resto, spese liquidate per l'intero in complessivi euro 3.626,06, di cui euro 826,06 per esborsi, oltre iva e cap come per legge;

- spese di CTU a definitivo ed integrale carico di parte convenuta.

Brindisi,25.9.2013.