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Tribunale di Lecce – Prima sezione civile, dott. Federica Sterzi Barolo – Sentenza n. 5974/2015 del 17 dicembre 2015.
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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di LECCE Prima Sezione CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Federica Sterzi Barolo ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 6953/2009 promossa da: M.G. + 2, tutti rappresentati e difesi dall’avv.to A.A. contro MINISTERO DELLA DIFESA, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA DELLO STATO LECCE CONVENUTO CONCLUSIONI Le parti hanno concluso come da verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni. Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione Con atto di citazione ritualmente notificato, gli attori in epigrafe, premesso che: 1. i deducenti sono rispettivamente moglie e figli del primo Maresciallo della Marina Militare, L.A., deceduto il 3.5.2006, a 51 anni, per mesotelioma maligno di tipo epitelioide destro con secondarietà polmonari controlaterali; 2. il proprio congiunto ha prestato servizio dal 18.8.1970 al 30.10.1988, con la qualifica di elettricista su molte navi della Marina militare, compiutamente indicate in citazione, svolgendo servizio di guardia nel locale diesel-alternatore durante i periodi di permanenza in porto e nel locale turbo- alternatori nel corso della navigazione; 3. in particolare, poi, fra il luglio del 1975 e il settembre 1976 e tra il settembre 1977 e il gennaio 1981 è stato impiegato sulla nave Caorle quale sottufficiale addetto al gruppo forza, centrali elettriche e diesel-alternatori; in tali periodi la nave è stata sottoposta a lavori di grande manutenzione ed il L. ha seguito le varie ditte incaricate dello smontaggio e rimontaggio delle apparecchiature elettriche e dei motori, con continua rimozione delle pannellature di lana di vetro e fibre di amianto, oltre che delle relative coibentazioni in amianto; 4. tra l’ottobre del 1986 e l’ottobre del 1988 ha prestato servizio sulla nave Doria in qualità di sottufficiale capo gruppo forza centrali e centrali di conversione, controllando l’attività delle imprese incaricate dei lavori di manutenzione che hanno comportato il montaggio e il rimontaggio di apparecchiature e motori elettrici dei locali di produzione elettrica e caldaie dove erano presenti tubi e pannelli di coibentazione che contenevano lana di vetro e fibre di amianto, occupandosi personalmente della riparazione e manutenzione di forni e cucine di bordo, dotate di apparecchiature rivestite con lana di vetro e fibre di amianto; 5. in data 1.1.2002, dopo 31 anni di servizio, il L. si è congedato usufruendo dell’indennità pensionistica; nel dicembre 2003 ha accusato gravi disturbi di salute, a seguito dei quali gli è stata diagnosticata la patologia che l’ha condotto alla morte- hanno convenuto in giudizio il Ministero della Difesa, datore di lavoro del loro congiunto al fine di ottenere la condanna dello stesso al risarcimento dei danni subiti iure proprio a causa del prematuro decesso di quest’ultimo.
Instaurato il contraddittorio, si costituiva il Ministero della Difesa che contestava il fondamento della domanda in particolare deducendo che: il primo atto che raccomanda di evitare l’impiego di materiali contenenti amianto sulle unità navali è la Circolare del Ministero della Sanità del luglio 1986; in esito a detta circolare la PA, sin dal 1987, ha posto in essere diverse misure precauzionali tra cui il divieto di usare sulle navi amianto blu (crucidolite, minerale costituito da fibre di elevata resistenza agli agenti chimici che, una volta inalato, permane illimitatamente nei polmoni) e la verifica dell’esistenza di amianto bianco (crisotilo, materiale meno fibrogeno rispetto alla crucidolite); dopo l’entrata in vigore della L. n. 257/92 con cui è stata stabilita la cessazione, entro il 1994, dell’impiego dell’amianto, è stata attuata la bonifica-incapsulamento dell’amianto presente nelle unità di vecchia costruzione; per il periodo antecedente l’introduzione delle predette misure deve escludersi in capo al personale militare imbarcato la sussistenza di un rischio specifico di esposizione alle polveri di asbesto, ciò in quanto nelle Forze Armate non sono mai state presenti figure professionali che avessero compiti che comportassero operazioni a diretto contatto con l’amianto (es, decoibentatori); il L. in particolare poteva in astratto venire a contatto con l’amianto solo quando effettuava interventi di riparazione o manutenzione di apparecchiature elettriche, interventi normalmente occasionali e di modesta entità atteso che gli stessi vengono svolti da maestranze arsenalizie e/o ditte esterne. Chiedeva pertanto il rigetto della domanda. La causa veniva istruita documentalmente e mediante l’assunzione dei testi indicati da parte attrice. All’udienza del 7.5.2015 il Giudice tratteneva la causa in decisione assegnando alle parti i termini di cui all’art. 190 c.p.c. La domanda attorea è fondata e va accolta nei limiti e per le ragioni di seguito indicate. Va innanzitutto dato atto del fatto che la Commissione medica ospedaliera dell’Ospedale Militare Marittimo di Taranto ha accertato che L.C.A. era affetto da mesiotelioma pleuropolmonare destro con metastasi controlaterali, epatiche ed ossee, e ha riconosciuto la causa di servizio della predetta infermità. Con nota in data 9.9.2011 il Ministero della Difesa, visto il parere del Comitato di Verifica per le Cause di Servizio del 30.6.2011 che giudicava l’infermità sofferta dal maresciallo Lotti come dipendente da causa di servizio e riconducibile alle particolari condizioni ambientali ed operative di missione, ha attestato che il medesimo è equiparato alle Vittime del Dovere. Dalla lettura delle dichiarazioni rese dai testi, inoltre, è emerso che la nave Caorle, sulla quale il L. è stato imbarcato dal 1975 alla fine del 1976 e dal 1977 al 1981, era coibentata con fibre di amianto e gli alloggi avevano le tubazioni e le pareti ricoperte di fibre di asbesto; detta imbarcazione non è stata mai bonificata, ma alla fine del 1988 è andata direttamente in disarmo. A dire del teste A., il L. svolgeva le mansioni di elettricista e, nell’espletamento dell’attività lavorativa, ha sempre smontato e rimontato pezzi coibentati con fibre di amianto ed ha partecipato attivamente allo spegnimento di incendi che frequentemente divampavano in sala macchine (circostanze quest’ultime confermate dal teste D.V.). Tanto accertato, va rilevato che in base alle attuali conoscenze scientifiche sui rischi da esposizione all’amianto, le fibre di amianto inalate possono produrre principalmente le seguenti patologie: l’asbestosi (patologia non tumorale del polmone), il carcinoma (patologia tumorale del polmone), il mesotelioma (patologia tumorale della pleura o del peritoneo), tumori del tratto gastro-intestinale, della laringe e di altre sedi. Per quanto riguarda in particolare il mesotelioma, la scienza medica ha appurato che nel mesotelioma pleurico, nei soggetti suscettibili esposti ad amianto l’effetto cancerogeno può essere conseguente ad una “dose” estremamente bassa, a differenza di tutti gli altri tumori (così Cass. civ. Sez. lav. n. 18267 del 30.7.2013). Ne consegue che dovendo ritenersi provato che il maresciallo L., durante l’attività lavorativa svolta sulle navi, è stato continuamente a contatto con l’amianto contenuto sia nei rivestimenti delle imbarcazioni che nelle coibentazioni delle apparecchiature su cui il medesimo operava, ed essendo incontestato che lo stesso fosse affetto da mesotelioma della pleura, appare assai probabile che la predetta patologia, attesa l’eziopatogenesi della stessa, sia stata causata dall’esposizione all’asbesto. Secondo la Suprema Corte, infatti, in tema di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., per l'accertamento del nesso causale tra condotta e l’evento di danno alla salute del dipendente pur non richiedendosi la dimostrazione di un rapporto di consequenzialità necessaria tra la prima ed il secondo, è tuttavia necessaria la sussistenza di un rapporto di “elevata probabilità scientifica”, da verificare attraverso ulteriori elementi idonei a tradurre in certezze giuridiche le conclusioni astratte svolte in termini probabilistici, sicchè il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile (Cass. 16 gennaio 2009 n. 975; Cass. 26 giugno 2009, n. 15078; Cass. 11 novembre 2005, n. 22894; Cass. 26 giugno 2007, n. 14759). Ciò detto e passando al profilo della colpevolezza, va osservato che la responsabilità del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è neppure circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Sicchè, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia (Cass. 3 agosto 2012, n. 13956; Cass. 1 febbraio 2008, n. 5491; Cass. 14 gennaio 2005, n. 644). Se allora incombe al lavoratore, che lamenti di avere subito un danno alla salute a causa dell'attività lavorativa svolta, l'onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno e l’altro, qualora egli abbia fornito la prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (Cass. 29 gennaio 2013, n. 2038; Cass. 20 febbraio 2006, n. 3650). D’altro canto, dal dovere di prevenzione imposto al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c., (che non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva) non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile e innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che un danno si sia comunque verificato, occorrendo invece che l’evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati (Cass. 1 giugno 2004, n. 10510). Ed in particolare è opportuno sottolineare la diversa modulazione di contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 c.c., che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza: nel primo caso, riferibile alle misure di sicurezza cosiddette “nominate”, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno; nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza cosiddette “innominate”, la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è invece generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorchè non risultino dettati dalla legge (o da altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (Cass. 25 maggio 2006, n. 12445). Ciò detto, nel caso di specie, pure in assenza di norme specifiche per il trattamento dei materiali contenenti amianto, (introdotte con D.P.R. 10 febbraio 1982, n. 15), era tuttavia imposta l'adozione di misure idonee a ridurre il rischio di esposizione dei lavoratori alle polveri, in virtù del D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21, facente obbligo al datore, nei lavori normalmente fonte di polveri di qualunque specie, di adottare provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne la diffusione nell’ambiente di lavoro (primo comma) e, in caso di impossibilità di sostituzione del materiale di lavoro polveroso, di adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi o muniti di sistemi di aspirazione e raccolta delle polveri per impedirne la dispersione (comma 3); ed ancora, quando inattuabili tali misure tecniche di prevenzione e possibile per la natura del materiale polveroso, di provvedere all'inumidimento del materiale (comma 4); infine, qualunque sistema adottato per la raccolta e l’eliminazione delle polveri, di impedire che esse possano rientrare nell’ambiente di lavoro (comma 5). Il Ministero convenuto non ha dedotto né provato di aver adottato alcuna delle predette misure. Ne deriva che lo stesso va ritenuto responsabile dell’insorgenza della patologia del L. e conseguentemente del decesso dello stesso. Sulla base delle predette argomentazioni, allora, il convenuto va condannato al risarcimento dei danni subiti dagli attori per la perdita del congiunto. Com’è noto, per giurisprudenza unanime il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale va liquidato in favore del coniuge e dei figli indipendentemente dalla prova che al momento del decesso gli stessi convivessero con il congiunto. Tale voce di danno viene determinata in via equitativa, sulla base di criteri di natura presuntiva e delle prove offerte dalle parti nel giudizio. Più precisamente si tiene conto della composizione del nucleo famigliare - presumendosi che un nucleo famigliare ampio consente, in via generale, maggiori meccanismi di compensazione del dolore – dell’età della vittima, cui si collegano le aspettative dei superstiti nei suoi confronti, dell’età dei superstiti e dell’intensità del legame affettivo tra le parti. Pertanto, in applicazione delle tabelle milanesi, in considerazione della età ancor giovane della sig. M. e del marito, tale da far presumere che gli stessi avrebbero goduto ancora a lungo della compagnia, dell’appoggio e del conforto reciproci, va riconosciuto in favore della prima un risarcimento del danno nella misura di euro 230.000,00, così determinati in via intermedia tra il minimo e il massimo, tenuto conto della presenza di due figli. Non appaiono infatti sussistenti, nel caso di specie, né tantomeno sono stati allegati, specifici elementi che possano indurre a quantificare il danno non patrimoniale di natura permanente dai medesimi subito in misura superiore ai valori monetari medi indicati nelle citate tabelle. Va riconosciuto altresì il risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale in favore dei due figli, determinato nella somma di euro 200.000,00 ciascuno, tenuto conto dell’età degli stessi alla data della morte del padre (28 e 23 anni), tale da far ritenere abbastanza prossima la formazione di una propria famiglia, nonchè della composizione del nucleo familiare d’origine. Non appaiono infatti sussistenti, nel caso di specie, né tantomeno sono stati allegati, specifici elementi che possano indurre a quantificare il danno non patrimoniale di natura permanente dai medesimi subito in misura superiore ai valori monetari medi indicati nelle citate tabelle. Ne consegue che il Ministero convenuto va condannato alla corresponsione in favore di ognuno degli attori della somma sopra indicata a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, oltre agli interessi al tasso legale sulla somma devalutata alla data del decesso e rivalutata anno per anno fino al saldo (cfr. Cass. civ. Sez. III 15928/09: “...Poichè il risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale costituisce un tipico debito di valore, sulla somma che lo esprime sono dovuti interessi e rivalutazione dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso. La rivalutazione ha la funzione di ripristinare la situazione patrimoniale di cui il danneggiato godeva anteriormente all’evento dannoso, mentre il nocumento finanziario (lucro cessante) da lui subito a causa del ritardato conseguimento del relativo importo, che se corrisposto tempestivamente avrebbe potuto essere estinto per lucrarne un vantaggio economico, può essere liquidato con la tecnica degli interessi; questi ultimi, peraltro, non vanno calcolati nè sulla somma originaria nè su quella rivalutata al momento della liquidazione, ma computati sulla somma originaria rivalutata anno per anno, ovvero sulla somma rivalutata in base ad un indice medio"). Le predette somme appaiono idonee a risarcire i danni non patrimoniali di cui gli attori hanno chiesto ristoro, in considerazione del principio secondo cui (Cass. civ. n. 21716 del 23/09/2013) il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., preclude la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (danno alla vita di relazione, danno estetico, danno esistenziale, ecc., che hanno solo funzione descrittiva dell’estensione dell’unico danno non patrimoniale nella fattispecie in esame), che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie, fermo restando, però, l’obbligo del giudice di tenere conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso, tramite l’incremento della somma dovuta a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (cfr. Cass. civ. n. 24473/2014). Passando all’esame dei danni patrimoniali di cui gli attori hanno chiesto il risarcimento, quanto al dedotto lucro cessante derivante dal venir meno degli apporti economici che il defunto L. avrebbe garantito alla famiglia, va osservato che - per quanto consta agli atti - il L. si era congedato dalla Marina Militare per anzianità di servizio quando ancora non era a conoscenza della patologia, da lui scoperta nel 2003. Ne consegue che lo stesso già percepiva - al momento del decesso - il trattamento pensionistico e detto emolumento continua ad essere corrisposto alla M., sia pur sub specie pensione di reversibilità del marito. Ciò consente di escludere, in assenza di qualsivoglia elemento di prova in senso contrario, la sussistenza del danno lamentato. Parimenti va rigettata la richiesta risarcitoria avanzata da L.F. il quale ha dedotto di essere stato costretto ad abbandonare il proprio lavoro per assistere il padre. A giudizio di chi scrive, in mancanza di prova specifica in ordine all’insostituibilità dell’assistenza prestata dal figlio (anche a voler considerare la presenza in casa della madre casalinga e della sorella), deve ritenersi che se L.F. ha rinunciato a svolgere attività lavorativa, tanto sia il frutto di una scelta dello stesso che non può essere causalmente collegata alla condotta illecita oggetto di censura. Le predette domande vanno dunque rigettate. Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno compensate tra le parti nella misura di un terzo, e poste per la parte restante, liquidata come in dispositivo, a carico di parte convenuta. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1. Accoglie la domanda attorea per quanto di ragione e per l’effetto condanna il Ministero della Difesa alla corresponsione in favore: di M.G. della somma di euro 230.000,00, di L.F. della somma di euro 200.000,00 e di L.L. della somma di euro 200.000,00. Il tutto oltre accessori come in motivazione. 2. Condanna il Ministero convenuto alla rifusione in favore degli attori di due terzi delle spese di lite liquidati in complessivi euro 10.140,00, di cui euro 140,00 per spese, oltre IVA, CPA. |