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Tribunale di Lecce – Dott. Maurizio Rubino – Sentenza n. 2332 del 19 agosto 2013.
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TRIBUNALE DI LECCE
Repubblica Italiana
In Nome del Popolo Italiano
Il Tribunale di Lecce, in composizione monocratica in persona del Giudice dott. Maurizio Rubino, ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 3576/2002 RG., avente ad oggetto azione di risarcimento danni da responsabilità extracontrattuale
PROMOSSA DA
M.C., ATTORE
CONTRO
MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del ministro p.t., rappresentato e difeso ex lege dall' Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce CONVENUTO
All'udienza del 21.3.2013 la causa veniva posta in decisione, previa assegnazione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., sulle conclusioni rassegnate dalle parti, come da relativo verbale in atti.
MOTIVAZIONE
Ai sensi dell'art. 132 co. 2 n. 4 c.p.c., come modificato dall'art. 45 co. 17 della legge 18 giugno 2009 n. 69, applicabile anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore di tale legge di modifica (4 luglio 2009) ai sensi dell'art. 58 co. 2 della stessa legge, la presente sentenza viene motivata attraverso una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
La causa ha per oggetto la domanda, proposta dal M. nei confronti del Ministero della Salute, di risarcimento dei danni dallo stesso patiti per aver contratto un'epatite cronica HCV correlata a seguito di numerose emotrasfusioni alle quali venne sottoposto, presso diverse strutture pubbliche, in quanto affetto da "Beta Talessemia maior", sin dall'anno 1975.
Costituitosi in giudizio, il Ministero convenuto ha ìnnanzitutto eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, deducendo che le strutture pubbliche presso le quali l'attore ebbe a sottoporsi ad emotrasfusioni non sono suoi organi e non dipendono da esso, sicché alcuna responsabilità potrebbe essergli imputata in relazione ad eventuali fatti illeciti commessi dal personale sanitario presso di esse operanti; ha. poi, eccepito la prescrizione del diritto azionato dall'attore ed ha. infine, contestato la fondatezza dell'avversa domanda. domandandone il rigetto, sulla scorta del rilievo che all'epoca in cui le trasfusioni de quibus vennero effettuate non era stato ancora individuato il virus dell' epatite C, ragione per cui non esistevano neppure le analisi alle quale i donatori potessero essere sottoposti al fine di verificare se fossero e meno affetti da detto virus.
In via pregiudiziale va rigettata l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dal convenuto.
Invero, nel rilevare che è pacifico, tra le parti, che l'attore fu sottoposto ad emotrasfusione presso strutture pubbliche facenti parte del Servizio Sanitario Nazionale, la legitimatio ad causam del Ministro della Salute va affermata sulla scorta delle medesime considerazioni che consentono di dichiararne la responsabilità per i danni subiti dallo stesso subiti e che verranno in seguito esaminate.
Come verrà appreso diffusamente illustrato, infatti, la normativa in vigore all'epoca dei fatti per cui è causa attribuiva al Ministero della Sanità (oggi Ministero della Salute) specifiche competenze in materia di vigilanza sugli emoderivati e sull'uso dei medesimi (artt. 1 e 21 della legge 592/67; artt. 2, 3, 103, 112 del d.p.r. n. 1256/1971; legge 519/1973; artt. 4 e 6 della legge 833/78), ragione per la quale il convenuto è sicuramente legittimato a contraddire alla pretesa attorea, atteso che essa rinviene il proprio fondamento nella dedotta violazione, da parte della predetta amministrazione, degli obblighi di controllo e vigilanza posti a suo carico dalle predette disposizioni.
Nel merito, va poi disattesa l'eccezione di prescrizione sollevata dal Ministero della Salute.
Costituisce, ormai jus receptum, il principio secondo cui nelle ipotesi di infezioni da Hbv, Hcv e Hiv a seguito di trasfusioni con sangue infetto, eseguite da strutture pubbliche o private, non si configura il reato di epidemia colposa, per la mancanza dell'elemento della volontaria diffusione di germi patogeni, bensì quello delle lesioni o di omicidio colposo; pertanto il termine di prescrizione è di norma quello quinquennale, a meno che non sia intervenuta la morte del trasfuso, e decorre dalla data di presentazione della domanda volta ad ottenere l'indennizzo ex lege n. 210/1992 (ex plurimis, Cass. SS.UU. n. 581/2008 cit.).
Nel caso di specie la domanda di indennizzo ex lege n. 210/1992 è stata presentata il 9 .11.1994 (circostanza desumibile dalla nota, presente in atti, inoltrata dal M. al convenuto e da questi non contestata) e tuttavia con la nota da ultimo citata, ricevuta dal predetto ente l' 1.2.1999, l'attore ha richiesto il risarcimento dei danni subiti, interrompendo, in tal modo, la prescrizione.
Ciò premesso, la domanda attorea merita accoglimento nei limiti che saranno nel prosieguo illustrati.
In punto di fatto va innanzitutto premesso che appare pacifico tra le parti che il M., fin dall'anno 1975, ebbe a sottoporsi a numerose emotrasfusioni presso strutture ospedaliere del Servizio Sanitario pubblico.
Ebbene, per ciò che concerne la sussistenza del necessario nesso di causalità materiale tra le predette emotrasfusioni e le patologie dal medesimo contratte, esso è stato ravvisato non solo dalla Commissione Medica Ospedaliera presso l'Ospedale della Marina Militare di Taranto che, all'esito degli opportuni accertamenti, ha riconosciuto il diritto dell'attore alla corresponsione dell'indennizzo ex lege n. 210/1992, ma anche dal consulente tecnico d'ufficio nominato nel corso del giudizio.
Ed infatti nella relazione depositata in data 5.6.2007 il dott. Sandro Petrachi ha affermato, sulla scorta di un giudizio presuntivo, che è "altamente probabile che il M., sottoposto periodicamente, sin dal primo anno di età, a terapia trasfusionale per Talassemia, abbia contratto l 'HCV a seguito di tale pratica", precisando che, "considerato l'alto rischio di contrarre infezioni trasmesse dal sangue e derivati a mezzo di emotrasfusionì, risulta trascurabile, se non irrilevante, il rischio di contagio correlato ad altre vie di trasmissione (pedicure, tatuaggi, promiscuità sessuale, ecc.)", sicché si può "ragionevolmente affermare che l'infezione da HCV sì dipenda dalla pratica emotrasfusionale" .
Può, dunque, ritenersi senz'altro sussistente il nesso eziologico tra le emotrasfusioni alle quali il M. è stato sottoposto e l'epatite dallo stesso contratta, tenuto conto, per un verso, che, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 582/2008, in tema di responsabilità extracontrattuale per danno causato da emotrasfusione "la prova del nesso causale, che grava sull'attore danneggiato, tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV, ove risulti provata l'idoneità di tale condotta a provocarla; può essere fornita anche con il ricorso alle presunzioni (art. 2729 c.c.)" e considerato, sotto altro profilo, che ai fini dell'accertamento del nesso causale in materia di responsabilità civile non vige la regola applicata ai fini dell'affermazione della responsabilità penale della prova "oltre il ragionevole dubbio" (Cass. Pen. SS.UU. n. 30328/02, Franzese), bensi quella della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti (Cass. Civ. SS.UU. 584/2008).
Per ciò che concerne, poi, la sussistenza non solo del nesso di causalità materiale, ma anche del necessario nesso di causalità giuridica tra la condotta omissiva ascritta del Ministero e le conseguenze lesive che ne sono derivate a danno dell'attore, va rilevato che non può condividersi l'eccezione del convenuto secondo cui alcuna responsabilità potrebbe essergli imputata, poiché all'epoca in cui vennero verosimilmente effettuate le trasfusioni de quibus (come si evidenzierà nel prosieguo, infatti, non è stato possibile accertare con certezza la data del contagio) non era stato ancora individuato il virus dell'epatite C (HCV) e non esistevano quindi i relativi markers attraverso i quali accertarne la presenza nel sangue dei donatori.
In proposito è opportuno esaminare gli approdi ai quali è pervenuta la giurisprudenza della legittimità negli ultimi anni, a far tempo dall'anno 2008, fmo alla sentenza n. 17685 del 2011.
Va premesso che, come evidenziato dalle Sezioni Unite nelle numerose sentenze pronunciate in materia nell'anno 2008 (v. in particolare la nota sentenza n. 581/2008), anche prima dell'entrata in vigore della Legge 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttiva e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della Salute, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria.
Ed infatti, la L. n. 592 del 1967, (art. l) prevede che il Ministero emana le direttive tecniche per l'organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione, e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita la vigilanza, e gli attribuisce inoltre (art. 21) il compito di autorizzare l'importazione e l'esportazione di sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico;
il D.P.R n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3, 103, 112); la L. n. 519 del 1973, attribuisce all'Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica; l'art. 6 (lettere b) e c) della L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale, conserva al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati, mentre l'art. 4 (n. 6) conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale;
il D.L. n. 443 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla ed. "farmacosorveglianza" da parte del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio.
Ne discende che "l'omissione, da parte del Ministero, di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale. ( ... ) dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi" (Cass. SS.UU. n. 581/2008 cit.).
Ciò premesso, va evidenziato che, come osservato nella predetta pronuncia, "ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 C.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo".
Tuttavia, "non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della cd regolarità causale" (ibidem).
Ne discende che, secondo la teoria della regolarità causale, "ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta ( ... ) che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili" in base ad una valutazione da compiersi, sebbene a posteriori, ex ante ed in concreto (c.d. prognosi postuma), tenendo tuttavia presente che "ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell'evento" (Cass. n. 581/2008 cit.).
Per ciò che concerne, poi, in particolare, "l'imputazione per omissione colposa", il Supremo Consesso ha innanzitutto evidenziato che, in tal caso, "il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto".
Ed infatti, "poiché l'omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto".
Individuato tale obbligo, la causalità, che nell'omissione non può essere di ordine strettamente materiale, atteso che ex nihilo nihil fit, diviene tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico, ovvero sia appurando se l'azione doverosa omessa avrebbe, con un elevato grado di probabilità, impedito l'evento.
Muovendo dai predetti principi in tema di nesso causale da comportamento omissivo, le Sezioni Unite giungono quindi ad individuare anche il criterio per la determinazione temporale della responsabilità del Ministero per i c.d. danni "da sangue infetto", ovverosia per la lesione dell'integrità psicofisica subita da soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, superando, almeno in parte, le conclusioni alle quali la Corte era pervenuta con la sentenza n. 11609 del 2005.
Ed infatti in tale pronuncia i giudici di legittimità avevano affermato che "finché non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perché l'evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l'evento lesivo, in quanto all'interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l'omissione causante e non successivamente, non apparivano del tutte inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l'attività omessa".
Con la pronuncia in esame, invece, le Sezioni Unite, sulla scorta del rilievo che, come osservato da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina, "non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale (trasfusione con sangue infetto - contagio infettivo - lesione dell 'integrità)", pervengono alla conclusione che "già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell'esclusiva competenza del giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell'integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge".
In un arresto più recente (Cass. n. 17685/2011), la Terza Sezione della Corte di Cassazione, dopo aver nuovamente passato in rassegna le numerose fonti normative già individuate dalle Sezioni Unite nella menzionata pronuncia, dalle quali derivano, a carico del Ministero convenuto, gli obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo in ordine (anche) alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati, ha evidenziato come dall'avvenuta emanazione dei predetti provvedimenti normativi di rango primario e secondario sia possibile evincere come fosse già ben noto sin dalla fine degli anni 60, e, dunque, non eccezionale od imprevedibile, il rischio di trasmissione di epatite virale, atteso che la rilevazione (indiretta) dei virus era già all'epoca possibile mediante la determinazione delle transaminasi AL T ed il metodo dell'anti-HbcAg, circostanza già da tempo evidenziata, osserva la Corte, dalla giurisprudenza, anche di merito (cfr. Cass. n. 6241/1987; Cass. n. 8069/1993; Trib. Milano 19.11.1997; Trib. Roma 14.6.2001 ivi citate).
D'altro canto, rileva ancora il giudice di legittimità richiamando la precedente pronuncia n. 9315 emessa il 20.11.2010, sin dalla metà degli anni 60 erano esclusi dalla possibilità di donare il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e delle OPT - indicatori della funzionalità epatica - fossero alterati rispetto ai limiti prescritti e del resto la stessa amministrazione convenuta, dimostrando di essere ben a conoscenza del fenomeno, "ha con circolari n. 1188 del 30 giugno 1971, 17 febbraio e 15 settembre 1972 disposto la ricerca sistematica dell'antigene Australia (cui fu dato poi il nome di antigene di superficie del virus dell'epatite B); e con circolare n. 68 del 1978 ha poi reso obbligatoria la ricerca della presenza dell'antigene dell'epatite B in ogni singolo campione di sangue o plasma"
Appurato, dunque, che anche prima dell'entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, sulla base della legislazione vigente in materia il Ministero della sanità era tenuto ad attività di controllo, direttiva e vigilanza in materia di sangue umano, la Corte ha rilevato che "l'omissione delle attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento gli attribuisce il potere (nel caso concernente la tutela della salute pubblica) espone il Ministero a responsabilità extracontrattuale allorquando ( ... ) dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico (il quale è strumentale ed accessorio a quel potere) derivi la violazione di interessi giuridicamente rilevanti dei cittadini-utenti (cfr. Cass., Sez. Un, 11/1/2008, n 576)", evidenziando che in siffatta ipotesi "la colpa della P.A. rimane ( ... ) integrata in ragione della violazione dei comportamenti dovuti di vigilanza e controllo, imposti dalle fonti normative più sopra richiamate, costituenti limiti esterni all'attività discrezionale ed integranti la norma primaria del neminem laedere di cui all'art. 2043 c.c. (cfr., in relazione ad altra fattispecie, Cass., 27/4/2011, n. 9404), in base alle quali essa è tenuta ad un comportamento di vigilanza, sicurezza ed attivo controllo in ordine all'effettiva attuazione da parte delle strutture sanitarie addette al servizio di emotrasfusione di quanto loro prescritto al fine di prevenire ed impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto (cfr. Cass., 28/9/2009, n 20765, e, da ultimo, Cass., 23/5/2011, n 11301), non potendo considerarsi invero esaustiva delle incombenze alla medesima in materia attribuite la quand'anche assolta mera attività di normazione (emanazione di decreti, circolari, ecc.).
Muovendo da tali premesse, la Corte ha dunque affermato che "in caso di concretizzazione del rischio che la regola violata tende a prevenire non può prescindersi dalla considerazione del comportamento dovuto e della condotta nel singolo caso in concreto mantenuta, e il nesso di causalità che i danni invero presuntivamente provato (cfr. Cass., Sez. Un, 11/1/2008, n. 584; Cass., Sez. Un, 11/1/2008, n 582. E, da ultimo, Cass., 27/4/2011, n 9404)".
Per ciò che concerne, poi, in particolare, l'epoca a far tempo dalla quale è possibile pervenire ad un'affermazione di responsabilità del Ministero della Salute nell'ipotesi in cui, a seguito di un'emotrasfusione, il paziente abbia contratto l'epatite C, la Corte ha affermato che, "nello specificare che il Ministero della salute risponde "anche per il contagio degli altri due virus" già "a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B", trattandosi non già di "eventi autonomi e diversi" ma solamente di "forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell'integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto", le Sezioni Unite non hanno certamente inteso ( ... ) limitare la rilevanza del fenomeno e la relativa responsabilità alla "data di conoscenza dell'epatite B '''', evidenziando come esse abbiano "per converso sottolineato come si tratti di un "rischio che è antico quanto la necessità delle trasfusioni'",
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha quindi conclusivamente asserito che "non può allora non ritenersi il Ministero della salute tenuto, anche anteriormente alle sopra riportate date indicate da Cass., 31/5/2005, n 11609, a controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente dai virus de quibus e che i donatori non presentassero alterazione delle transaminasi, in adempimento di obblighi specifici posti dalle fonti normative speciali più sopra indicate".
Appare dunque evidente la sussistenza, nel caso di specie, del necessario nesso di causalità, non solo materiale, ma anche giuridica, tra le emotrasfusioni alle quali l'attore è stato sottoposto sin dall'anno 1975 e l'epatite da esso contrattata, indipendentemente dall'anno in cui è avvenuto il contagio, dovendosi al riguardo dissentire, alla luce delle considerazioni finora svolte, dalle valutazioni espresse dal C.t.U.
Quest'ultimo, infatti, con riferimento all'epoca in cui il M. ha presumibilmente contratto la patologia per cui è causa ha dapprima affermato che dalla documentazione dallo stesso esaminata risulta che nel 1996 la ricerca dell'HCV -RNA plasmatico e degli HCV -Ab risultarono positivo e che non esiste in atti un controllo precedente dal in cui il test per l'HCV risulti negativo.
Dopodiché ha rilevato che dalla medesima documentazione risulta che nel 1987 l'attore era già affetto da un'epatopatia istologìcamente accertata con fibrosi del fegato e tuttavia, non avendo costui prodotto, malgrado la richiesta rivoltagli dall'ausiliario, le cartelle cliniche relative ai ricoveri effettuati per il trapianto di midollo, né quelle relative agli accessi ambulatoriali effettuati per il morbo di Cooley, non è possibile stabilire "che esista una comune eziopatogenesi tra l'epatopatia con fibrosi rilevata nel 1987 e quella HCV-correlata diagnosticata nel 1996", ragione per cui non è neppure "possibile stabilire, con ragionevole certezza, ( ... ) l'epoca del contagio dell'HCV".
Ciò premesso, il consulente ha affermato che ai fini dell'affermazione della responsabilità del Ministero della Salute verrebbe in rilievo l'epoca del contagio, in quanto, se questa fosse "anteriore al 1988 (epoca in cui non erano disponibili i test di laboratorio per l'identificazione dell'HCV)", ovvero "successiva al luglio 1990 (data in divenne obbligatoria la ricerca dei markers per l'HCV sulle unità di sangue e derivati provenienti da donatori)", nessun addebito potrebbe a suo giudizio essere mosso al convenuto, nel primo caso stante, appunto, la mancanza di markers specifici per l'individuazione di detto virus, mentre, nel secondo, essendo obbligatoria l'esecuzione sulle sacche del relativo test, l'eventuale contagio avvenuto oltre la predetta data rientrerebbe "nei rischi propri della pratica trasfusionale".
Ebbene, premesso che deve concordarsi con l'ausiliario nel ritenere assai più probabile, non solo sulla scorta di un criterio statistico, ma anche in base alla logica, che l'attore abbia contratto il virus dell'HCV in epoca antecedente al 1990, in ogni caso alla luce dei menzionati principi da ultimo affermati dalla giurisprudenza di legittimità le valutazioni espresse dal c.t.u, non possono essere condivise.
Appurata, infatti, sulla scorta di un criterio presuntivo e probabilistico la sussistenza del nesso di causalità materiale tra le trasfusioni alle quali l'attore è stato sottoposto e l'epatite dallo stesso contratta, per andare esente da responsabilità il Ministero avrebbe dovuto provare di aver effettuato, su ognuno dei donatori da quali sono state prelevate le sacche di plasma trasfuso al M., i controlli che, sulla scorta delle conoscenze anno per anno raggiunte dalla comunità scientifica, sarebbero risultate di volta in volta idonee se non a scongiurare, quantomeno ad attenuare grandemente il rischio di contagio.
Ed infatti, come sopra evidenziato, nell'ipotesi in cui il contagio dovesse essere avvenuto in epoca antecedente al 1988 la circostanza che non esistessero ancora i markers per l'HCV non è sufficiente al fine di escludere la responsabilità del Ministero della Salute, poiché già dalla seconda metà degli anni sessanta la rilevazione (indiretta) dei virus era già all'epoca possibile mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell'antiHbcAg, sicché il convenuto avrebbe dovuto provare l'osservanza degli obblighi che già a quel tempo l'ordinamento giuridico poneva al fine di scongiurare o quantomeno limitare il rischio che si verificassero eventi lesivi della specie di quello di cui è rimasto vittima il M., dimostrando l'avvenuta sottoposizione dei donatori del sangue allo stesso trasfuso agli esami volti ad accertare che costoro non presentassero i valori delle transaminasi alterati, così come prescritto dalla c.d, ''Circolare Mariotti" fin dal 1966 (n. 50 del 28.3.1966).
Né può obiettarsi, in proposito, che tale ultimo accertamento non avrebbe comunque consentito di appurare con assoluta certezza la presenza del virus HCV nel predetto sangue, essendo possibile, come noto, che il donatore di sangue infetto non presenti alcuna alterazioni delle transaminasi.
Invero, secondo la teoria della causalità specifica, recepita dalla Suprema Corte nella citata sentenza n. 17685/2011 e che questo Giudice condivide, allorquando l'evento lesivo verificatosi costituisce concretizzazione del rischio che la norma violata intendeva prevenire la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta colposa dell'agente e le conseguenze lesive che ne sono derivate deve ritenersi provata in via presuntiva, indipendentemente dal grado di probabilità con cui il comportamento omesso avrebbe potuto scongiurare l'evento, essendo sufficiente, ai fini dell'affermazione della sua responsabilità, che in conseguenza dell'omissione risulti apprezzabilmente aggravato il rischio della sua verificazione.
Neppure coglie nel segno l'obiezione del Ministero della Salute secondo cui, avendo egli provveduto all'emanazione delle menzionate disposizioni normative, della mancata esecuzione dei test e dei controlli dalle stesse prescritti dovrebbero essere chiamate a rispondere unicamente "la struttura ospedaliera o A.S.L. che ha mal applicato le nonne vigenti".
Invero, diversamente da quanto ritenuto dal convenuto, dei danni subiti da pazienti emotrasfusi egli risponde non solo nelle ipotesi in cui abbia omesso di emettere quelle disposizioni di carattere secondario volte ad eliminare o ridurre i rischi di contagio la cui emanazione era ad esso demandata dal legislatore, ma anche allorquando non abbia assolto, o, quantomeno, non abbia dimostrato di aver assolto quei compiti di vigilanza e controllo affidatigli dalle fonti nonnative innanzi richiamate.
Come già in precedenza ricordato, infatti, nella citata sentenza n. 17685/2011la Suprema Corte ha chiarito che l'amministrazione convenuta era ed "è tenuta ad un comportamento di vigilanza, sicurezza ed attivo controllo in ordine all'effettiva attuazione da parte delle strutture sanitarie addette al servizio di emotrasfusione di quanto loro prescritto al fine di prevenire ed impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto (cfr. Cass., 28/9/2009, n. 20765, e, da ultimo, Cass., 23/5/2011, n. 11301), non potendo considerarsi invero esaustiva delle incombenze alla medesima in materia attribuite la quand'anche assolta mera attività di normazione (emanazione di decreti, circolari, ecc.).
Ad analoghe considerazioni deve dunque pervenirsi anche nell'ipotesi, in verità assai poco probabile, che il contagio sia avvenuto in epoca successiva al luglio del 1990, atteso che la circostanza che a far tempo da tale data sia obbligatoria la sottoposizione dei donatori di sangue al test volto all'individuazione dell'HCV non appare sufficiente, in difetto della prova che le sacche trasfuse al M. provenissero effettivamente da donatori sottoposti al predetto test, per poter affermare con assoluta certezza che, come affermato dall'ausiliario, che il contagio rientri "nei rischi propri della dinamica trasfusionale" e che pertanto spetti al danneggiato, trattandosi di evento lesivo cagionato da attività lecita dello Stato, unicamente l'indennizzo ex lege n. 210/1992, e non anche il risarcimento.
Ritiene, infatti, il decidente, che la prova di tale ultima circostanza, consistendo essa in un fatto impeditivo dell'altrui pretesa risarcitoria, spetti al convenuto, il quale del resto era ben grado di assolvere il relativo onere, posto che, secondo quanto dallo stesso affermato nella propria comparsa conclusionale, avendo "l'attore ( ... ) ricevuto le trasfusioni di sangue mediante sacche numericamente individuate ( ... ) si poteva accertare la provenienza di quelle sacche e se i donatori fossero stati sottoposti ai rigorosi controlli prescritti dal Ministero".
Appurata, dunque, sulla scorta delle considerazioni che precedono, la responsabilità del convenuto, occorre procedere alla quantificazione del danno subito dall'attore, stimato dall'ausiliario in venti punti percentuali di invalidità permanente.
Nel determinare la somma a quest'ultimo spettante a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da lesione dell'integrità psico-fisica dallo stesso subito, questo Giudice ritiene di fare applicazione delle nuove tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale adottate dall'Osservatorio per la giustizia civile del Tribunale di Milano il 6.3.13, anche in considerazione del fatto che, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità nella citata sentenza n. 12408/20 Il, gli importi in essa contenuti costituiranno d'ora innanzi, per la giurisprudenza della Corte, il valore da ritenersi "equo", e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l'entità.
Occorre inoltre evidenziare che le predette tabelle prevedono la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente a «lesione permanente dell'integrità psìco-fìsica della persona suscettibile di accertamento medico legale», nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi, e del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di "dolore", "sofferenza soggettiva", in via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione, vale a dire la liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di cosi detto danno biologico "standard" e di cosi detto danno morale, apparendo dunque conformi ai principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella nota sentenza 26972/2008.
Per ciò che con cernerne l'età da prendere in considerazione ai fini del risarcimento, in mancanza di elementi certi in ordine all'anno in cui si è verificato il contagio può farsi riferimento, cosi come richiesto dall'attore, all'età che il medesimo aveva allorquando, nel 1994, egli presentò la domanda di indennizzo, atteso che non è revocabile in dubbio che a quella data egli avesse già contratto il virus dell'epatite, ovverosia diciannove anni.
Ebbene, facendo applicazione delle citate tabelle l'importo che spetta al R. a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da lesione permanente dell'integrità psico-fìsìca è pari ad € 78.634,00.
Non appaiono infatti sussistenti, nel caso di specie, né tantomeno sono stati allegati, specifici elementi che possano indurre a quantificare il danno non patrimoniale subito dall'attore in misura superiore ai valori monetari medi indicati nelle citate tabelle.
Essendo l'importo del risarcimento stato quantificato in moneta attuale, sulla predetta somma non va applicata rivalutazione monetaria, né su di essa possono riconoscersi interessi compensativi a titolo di risarcimento del danno da lucro cessante, non avendo costui provato, neppure sulla scorta di presunzioni, che qualora avesse avuto l'immediata disponibilità di tale somma avrebbe potuto impiegarla redditiziamente in modo da conseguire un guadagno superiore a quanto già liquidato a titolo di rivalutazione monetaria (cfr. Cass. n. 3268/2008; Cass. n. 22347/2007).
Nessuna somma può essere riconosciuta al M. a titolo di risarcimento del danno da inabilità temporanea, non a caso non quantificato dal c.t.u., atteso che il decorso clinico delle patologie da cui egli è affetto è quasi sempre asintomatico e che quando si percepiscono i sintomi la malattia è già cronicizzata.
Neppure può essere riconosciuto in favore dell'attore alcun danno patrimoniale da lesione della capacità lavorativa specifica, atteso, in primo luogo, che egli non ha in alcun modo provato di svolgere attività lavorativa, come viceversa allegato e posto, in ogni caso, che nulla ha riferito in proposito il dott. Petrachi, cui pure era stato domandato di accertare l'incidenza delle patologie contratte dal M. sulla predetta capacità.
Dalla somma spettante all'attore a titolo di risarcimento del danno subito va infine detratto l'importo riconosciuto in suo favore a titolo di indennizzo ex L. n. 210/1992, da quantificare capitalizzando la somma ad essa corrisposta annualmente dal convenuto, il cui ammontare non è stato indicato da alcuna delle parti.
Come chiarito dalla Suprema Corte, infatti, "la diversa natura giuridica dell'attribuzione indennitaria ex L. n. 210 del 1992, e delle somme Iiquidabili a titolo di risarcimento danni per il contagio da emotrasfusione infetta da Hiv ed Hcv a seguito di un giudizio di responsabilità promosso dal soggetto contagiato nei confronti del Ministero della sanità, per aver omesso di adottare adeguate misure di emovigilanza. non osta a che l'indennizzo corrisposto al danneggiato sia integralmente scomputato dalle somme Iiquidabili a titolo di risarcimento posto che in caso contrario la vittima si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto (il Ministero della salute) ed aventi causa dal medesimo fatto (trasfusione di sangue o somministrazione di emoderivati) cui direttamente si riferisce la responsabilità del soggetto tenuto al pagamento" (Cass. n. 584/2008; Casso n. 6573/2013).
Per ciò che attiene, da ultimo, alle spese di lite, la complessità della materia e l'esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, al punto da rendere necessario l'intervento delle Sezioni Unite, ne giustificano l'integrale compensazione, mentre, sulla scorta del criterio della soccombenza, vanno definitivamente poste a carico del convenuto le spese occorse per la consulenza tecnica d'ufficio.
P.Q.M.
Il Tribunale, in composizione monocratica in persona del Giudice dott. Maurizio Rubino, definitivamente decidendo nella causa iscritta al n. 3576/2002 R.G., cosi provvede:
- accoglie per quanto di ragione la domanda attorea e, per l'effetto, condanna il Ministero della Salute al pagamento, in favore di M.C., della somma di € 78,634,00, detratto l'importo riconosciuto in suo favore a titolo di indennizzo ex L. n. 210/1992, da quantificare capitalizzando la somma ad esso corrisposta annualmente dal convenuto;
- compensa interamente tra le parti le spese di lite;
- pone definitivamente a carico del convenuto le spese occorse per la consulenza tecnica d'ufficio.
Lecce, 8 luglio 2013