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Il danno da eccessiva permanenza di catetere neonatale: il Giudice può discostarsi dalla valutazione delle linee guida.

Le linee guida costituiscono un utile parametro nell'accertamento dei profili di colpa riconducibili alla condotta del medico ma non eliminano la discrezionalità giudiziale insita nel giudizio di colpa; il giudice resta, infatti, libero di valutare se le circostanze concrete esigano una condotta diversa da quella prescritta dalle stesse linee guida.

Tribunale di Lecce – Prima sezione civile, dott. Federica Sterzi Barolo – Sentenza n. 682 del 12 febbraio 2014.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Lecce, Prima Sez. Civile, in composizione monocratica, nella persona del Giudice Dr.ssa Federica Sterzi Barolo ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. 1193/2010 R.G .. vertente

TRA

S.C. e F.P., in proprio e in qualità di genitori esercenti la potestà sul figlio minore S.S.,                                                                                                                                         ATTORI

CONTRO

AZIENDA SANITARIA LOCALE LECCE, in persona del legale rappresentante p.t.,                             CONVENUTA

FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato, gli attori in epigrafe -nella qualità sopra indicata- hanno convenuto in giudizio l'ASL LECCE al fine di ottenere la condanna della medesima al risarcimento del gravissimo danno subito a causa dell'imperizia dei sanitari dell'Unità di Terapia Intensiva Neonatale dell'Ospedale Vito Fazzi di Lecce, i quali, a dire dei predetti:

a) cagionavano al figlio neonato una tromboflebite portale, secondaria a cateterismo neonatale, dalla quale derivava un'ernia iatale da scivolamento in presenza di varici esofago-gastriche in cavernoma epatico-portale, così come diagnosticata dall' U .O.S. di Gastroenterologia Pediatrica dell' Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma, con riflessi concausali nella genesi del ritardo motorio;

b) omettevano l'approfondimento diagnostico e follow up di reperti ecografici cerebrali anormali e

c) non informavano adeguatamente i genitori in ordine alle procedure diagnostiche e terapeutiche.

Le predette condotte hanno cagionato un danno all'integrità psico-fisica del bambino determinabile nella misura del 30% del totale.

Chiedevano pertanto la condanna dell'Azienda convenuta al risarcimento:

  1. 1.del danno biologico subito da Samuel da invalidità permanente e temporanea e del danno cd. esistenziale, calcolati nella complessiva somma di euro 344.000,00;
  2. 2.del danno patrimoniale subito dal minore, determinato in misura non inferiore ad euro 200.000,00;
  3. 3.del danno patrimoniale e morale subito dai genitori, il primo, da liquidarsi in via equitativa, e, il secondo, determinato nella somma di euro 200.000,00 ciascuno e
  4. 4.del danno da assenza di consenso informato, da liquidarsi in via equitativa.

Instaurato il contraddittorio, si costituiva l'Azienda Sanitaria Lecce la quale contestava il fondamento della domanda attorea chiedendone il rigetto.

La causa veniva istruita documentalmente e mediante CTU medico legale.

All'udienza del 28.5.2013 le parti precisavano le conclusioni e la causa veniva trattenuta in decisione con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c.

*********

La domanda attorea è fondata nella misura e per le ragioni di seguito indicate.

Va premesso che nei giudizi di risarcimento del danno causato da attività medica, l'attore ha l'onere di allegare e di provare l'esistenza del rapporto di cura, il danno ed il nesso causale, mentre ha l'onere di allegare, ma non di provare, la colpa del medico; quest'ultimo. invece, ha l'onere di provare che l'eventuale insuccesso dell'intervento, rispetto a quanto concordato o ragionevolmente attendibile, è dipeso da causa a sé non imputabile (cfr. tra molte Cass.civ. n. 18341/2013).

Pertanto, è il danneggiato che agisce per l'affermazione della responsabilità del medico che ha l'onere di provare la sussistenza di un valido nesso causale tra fatto del sanitario e danno; solo fornita tale prova in merito al nesso di causalità, è onere del medico, ai sensi dell'art. 1218 c.c., dimostrare la scusabilità della propria condotta.

Per quanto attiene poi in particolare alla responsabilità del medico per omessa acquisizione del consenso informato del paziente, va ricordato che la risarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell'atto terapeutico effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, necessariamente presuppone l'accertamento che il paziente quel determinato intervento avrebbe rifiutato se fosse stato adeguatamente informato ed il relativo onere probatorio, suscettibile di essere soddisfatto anche mediante presunzioni, grava sul paziente (cfr. Cass. civ. n. 2847/2010).

Tanto premesso, incontestato che S.S. è stato ricoverato dal momento della nascita (30.8.2005) a quello delle prime dimissioni (20.9.05) e poi nuovamente dal 22.9.05 al 1.10.2005 presso l'Unità di Terapia Intensiva Neonatale dell'Ospedale Vito Fazzi di Lecce, gli odierni attori hanno agito nel presente giudizio al fine di far accertare la responsabilità dei sanitari per:

l. non aver diagnosticato e trattato la trombosi venosa portale derivata al figlio dall'incannulamento della vena ombelicale in neonato pretermine;

2. non aver approfondito diagnosticamente e non aver effettuato il follow up di reperti ecografici cerebrali anormali e

3. non aver adeguatamente informato i genitori del piccolo paziente e non aver acquisito un valido consenso alle procedure diagnostiche e terapeutiche praticate.

Quanto alla doglianza avanzata sub punto 3, va osservato che l'Azienda convenuta ha prodotto copia della dichiarazione, resa dall'attore in data 30.8.2005, con cui lo stesso autorizzava i Sanitari dell'Unità di Terapia Intensiva Neonatale a compiere tutti gli interventi medico-chirurgici e le indagini di laboratorio e radiologiche che si rendessero necessarie.

A fronte delle risultanze della predetta documentazione, va rilevato che gli attori non hanno dedotto, prima ancora che provato, che vi sia stata un'omissione da parte dei sanitari in ordine alla spiegazione del tipo di terapia che i medesimi intendevano applicare al neonato, tale per cui a quest'ultimo siano stati praticati trattamenti sanitari senza fornire un'adeguata illustrazione della tipologia e dei rischi che i medesimi potevano rappresentare.

Assente risulta altresì qualsivoglia deduzione in ordine al fatto che gli attori avrebbero rifiutato la terapia, poi praticata al figlio, qualora avessero saputo che l'applicazione del catetere avrebbe potuto comportare infezioni o danni trombotici.

Quanto poi alla "lesione del consenso informato", dedotta a pag. 12 dell'atto di citazione, non è dato comprendere in che cosa si sostanzierebbe la lesione in questione, atteso che la doglianza avanzata riguarda la mancata prospettazione dell'esistenza di un possibile danno cerebrale, a seguito del riscontro ecografico di reperti anomali che avrebbero meritato un approfondimento o un monitoraggio nel tempo,

La predetta censura, a parere di chi scrive, non concretizza, così come prospettata, un'omissione con riferimento all'acquisizione di un valido consenso informato, omissione che presuppone l'adozione di un preciso programma terapeutico senza adeguata informazione all'avente diritto in ordine ai rischi e ai benefici che ne possono derivare; bensì, se del caso, una negligenza nell'adempimento della prestazione fornita dai sanitari.

Deve dunque ritenersi che la predetta doglianza sia sovrapponibile a quella riportata sub n. 2 delle premesse, di seguito esaminata.

Con riferimento ai profili di colpa eventualmente configurabili nella condotta appena descritta, va rilevato che, così come osservato dai CTU, al piccolo S., al momento delle dimissioni, fu consigliato un esame ecoencefalico al II mese di vita, ovvero a circa dieci giorni dalle prime dimissioni (avvenute al 19° giorno dalla nascita) e controlli clinici periodici.

Dalla documentazione prodotta dagli attori non si evince se mal fu eseguita detta ecografia, né se fu mai iniziato un follow up neurologico.

Ne consegue che, in relazione alla condotta considerata, nessuna negligenza o imperizia sono ravvisabili nel comportamento dei medici, i quali, correttamente, suggerirono l'effettuazione di controlli regolari.

E ciò anche a voler considerare che, come argomentato dai CTU, la leucomalacia, insorta nel bambino, nella maggior parte dei casi non dà segni o sintomi e necessita di qualche settimana per diventare riconoscibile, con la conseguenza che i neonati a rischio, e S. lo era attesa la riscontrata sofferenza fetale iniziale, effettuano ecografie cerebrali seriate, così come era stato consigliato dai medici dell'Unità di terapia intensiva al momento delle dimissioni.

Sulla base delle argomentazioni appena svolte, va allora escluso che ai sanitari che ebbero in cura S. presso l'Ospedale Vito Fazzi possa essere ascritta la dedotta omessa adeguata informazione e acquisizione di un valido consenso in ordine alle terapie effettuate.

Così come parimenti si può escludere che siano configurabili profili di colpa medica con riferimento al mancato approfondimento o monitoraggio di un eventuale danno cerebrale.

Va ora esaminata la sussistenza di profili di responsabilità dei medici con riferimento alla mancata diagnosi e trattamento della trombosi venosa portale in seguito all'incannulamento della vena ombelicale in neonato pretermine.

In proposito, sulla base dell'orientamento giurisprudenziale richiamato in premesse, spettava agli attori provare la sussistenza del nesso causale tra la condotta dei medici, con particolare riferimento all'incannulamento della vena ombelicale, e lo sviluppo del cavernoma portale, diagnosticato per la prima volta presso il Dipartimento Materno Infantile del P.O. di Parma nel luglio 2007.

Sul punto va richiamata la relazione depositata dai consulenti officiati nel corso del giudizio, dalla quale emerge che l'ipertensione portale pre-epatica può essere causata da trombosi con trasformazione cavernomatosa della vena porta, di natura o idiopatica o acquisita- tra l'altro- da cateterismo della vena ombelicale.

Nel caso di specie, dalla documentazione agli atti emerge che a poche ore dalla nascita di S., i sanitari isolarono e incannularono la vena ombelicale per difficoltà nel reperire un accesso periferìco.

Il 5.9.05 venne rimosso il catetere ombelicale posizionato il 30.8 e ne fu riposizionato un altro, sempre in vena ombelicale. In data 12.9.05 il secondo catetere fu rimosso.

A dire dei periti d'ufficio, i cateteri venosi ombelicali applicabili ai neonati possono restare in sede per un massimo di quattordici giorni, ma per questioni di sicurezza nella prevenzione delle infezioni e dei danni trombotici vengono ivi mantenuti per non più dì sei giorni.

Pertanto, secondo il giudizio dei medesimi, è possibile che l'eccessiva durata del catetere venoso ombelicale in situ (13 giorni), anche se negativo colturalmente, sia stata uno stimolo aspecifico nello scatenare una flogosi locale e quindi una tromboflebite che è esitata in cavernoma della porta.

La scrivente ritiene di condividere le argomentazioni svolte dai consulenti sulla base di un accurato esame della documentazione agli atti e della scrupolosa visita effettuata sul periziato, e ciò anche in considerazione del fatto che le controdeduzioni dei periti della convenuta non appaiono idonee a confutarne l'attendibilità.

A supporto delle valutazioni peritali va peraltro posto in rilievo che la sussistenza di un collegamento tra il cavernoma epatico e la tromboflebite portale secondaria a cateterismo neonatale appare acclarato anche nelle diagnosi effettuate presso il P.O. di Parma (vedi lettera di dimissioni 21.7.07; referto di esofago-gastro-duodenoscopia in data 4.9.2007).

Non ultimo va considerato che non sono emersi indizi, peraltro neppure ventilati da parte convenuta, idonei a supportare una diversa eziologia del cavernoma del bambino.

Sulla base dei predetti riscontri, questo Giudice ritiene assolto l'onere della prova gravante sugli attori in ordine alla sussistenza del nesso causale tra la tromboflebite, che ha cagionato il cavernoma epatico, e l'eccessiva permanenza in situ del catetere.

Sul punto va osservato che, anche se le linee guida consentono in via generale che il catetere ombelicale rimanga posizionato al massimo per quattordici giorni, ciò non vale ad escludere che la predetta applicazione, così come acclarato, abbia causato la patologia che è stata riscontrata al piccolo S.

Tanto premesso e ritenuto, a giudizio di chi scrive spettava all'Azienda convenuta, per andar esente da colpa, adempiere all'onere della prova, sulla stessa gravante, in ordine al corretto adempimento della prestazione cui era tenuta. In particolare, spettava alla stessa dimostrare che la decisione di mantenere il catetere nella vena ombelicale si era resa necessaria per la sopravvivenza del neonato, ovvero per consentire il miglior esito possibile della terapia al medesimo somministrata.

All'esito del giudizio, il predetto onere non risulta assolto.

Anzi, in senso contrario va osservato che i CTU, dopo aver esaminato l'evoluzione in positivo della situazione clinica del bambino a partire dall'8 settembre, hanno ritenuto non giustificata la permanenza del catetere fino al 12 settembre (vedi pagg. 44 e 45 della relazione peritale).

Quanto poi al dedotto rispetto delle linee guida al fine di escludere la colpa, va innanzitutto chiarito che il d.l. 13 settembre 2012 n. 158, art. 3 comma 1, conv. dalla I. 8 novembre 2012 n. 189 esclude la responsabilità medica in sede penale se l'esercente dell'attività sanitaria si attiene a linee-guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifìca.

La norma prevede tuttavia che, in tali casi, l'esimente penale non elide l'illecito civile e che resta fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c., che è clausola generale del neminem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale è la salute.

La novella contenuta nella l. n. 189 del 2012, dunque, si limita a indicare una particolare evoluzione del diritto penale vivente, col fine di agevolare l'utile esercizio dell'arte medica, evitando il pericolo di pretestuose azioni penali, senza modificare tuttavia la materia della responsabilità civile che segue le sue regole consolidate, non solo per la responsabilità aquiliana del medico, ma anche per la cosiddetta "responsabilità contrattuale" del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale (cfr. in tal senso Cass. civ. n.4030/2013).

Sul punto va altresì richiamata la giurisprudenza della Cassazione penale secondo la quale in tema di responsabilità medica, le linee guida - provenienti da fonti autorevoli, conformi alle regole della miglior scienza medica e non ispirate ad esclusiva logica di economicità - possono svolgere un ruolo importante quale atto di indirizzo per il medico; esse, tuttavia, avuto riguardo all'esercizio dell'attività medica, che sfugge a regole rigorose e predeterminate, non possono assurgere al rango di fonti di regole cautelari codificate, rientranti nel paradigma dell'art. 43 cod. peno (leggi, regolamenti, ordini o discipline), non essendo né tassative né vincolanti e, comunque, non potendo prevalere sulla libertà del medico, sempre tenuto a scegliere la migliore soluzione per il paziente.

D'altro canto, le linee guida, pur rappresentando un utile parametro nell'accertamento dei profili di colpa riconducibili alla condotta del medico, non eliminano la discrezionalità giudiziale insita nel giudizio di colpa; il giudice resta, infatti, libero di valutare se le circostanze concrete esigano una condotta diversa da quella prescritta dalle stesse linee guida (Cass. Pen. N. 35922/2012).

Sulla base delle argomentazioni appena svolte, deve dunque ritenersi sussistente la responsabilità dell' Azienda convenuta nella causazione del cavernoma della porta riscontrato sul minore.

Tanto premesso e passando alla determinazione dell'entità del danni subiti, va richiamata la relazione medica agli atti nella quale i CTU hanno stimato il danno biologico subito dal bambino, quale conseguenza della malattia per cui è causa, nella misura del 23-25% ed i periodi di invalidità temporanea totale e parziale rispettivamente in 60 giorni di ITT e 60 al 50%.

Il giudice ritiene di condividere le puntuali e approfondite valutazioni espresse dai periti d'ufficio anche perché i procuratori delle parti le parti non hanno prospettato ulteriori elementi di valutazione tali da validamente contrastare le considerazioni peritali.

Orbene, nel determinare la somma spettante al minore a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da lesione dell'integrità psico-fisica dallo stesso subìto, questo Giudice ritiene di fare applicazione delle nuove tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale adottate dall'Osservatorio per la giustizia civile del Tribunale di Milano.

La scelta di procedere alla liquidazione equitativa del danno non patrimoniale da lesione dell'integrità psico-fisica facendo ricorso alle predette tabelle appare, oramai, una scelta quasi necessitata alla luce di quanto affermato dalla Suprema Corte nella citata sentenza n. 12408/2011.

Nella suddetta pronuncia, infatti, la Corte, dopo aver premesso di ritenere che, nella perdurante mancanza di riferimenti normativi per le invalidità dal l0 al 100% e considerato che il legislatore ha comunque già espresso, quanto meno per le lesioni da sinistri stradali, la chiara opzione per una tabella unica da applicare su tutto il territorio nazionale, sia suo specifico compito, al fine di garantire l'uniforme interpretazione del diritto (che contempla anche l'art. 1226 c.c. relativo alla valutazione equitativa del danno), fornire ai giudici di merito l'indicazione di un unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona, quale che sia la latitudine in cui si radica la controversia, ha precisato di ritenere inopportuno contrapporre una propria scelta a quella già effettuata dai giudici di merito di ben sessanta tribunali, che, al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali, hanno posto a base del calcolo medio i valori di riferimento per la liquidazione del danno alla persona adottati dal Tribunale di Milano, dei quali è dunque già nei fatti riconosciuta una sorta di vocazione nazionale.

Muovendo da tali premesse, i giudici di legittimità hanno dunque affermato che i predetti valori costituiranno d'ora innanzi, per la giurisprudenza della Corte, il valore da ritenersi "equo", e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l'entità.

Occorre inoltre evidenziare che le predette tabelle prevedono la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente a «lesione permanente dell'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico legale», nei suoi risvolti anatomo-­funzionali e relazionali medi, e del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di "dolore", "sofferenza soggettiva", in via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione, vale a dire la liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di C.d. danno biologico "standard", c.d. personalizzazione - per particolari condizioni soggettive - del danno biologico e C.d. danno morale.

In particolare, per consentire la predetta liquidazione congiunta delle diverse voci di danno non patrimoniale derivante da lesione permanente dell'integrità psico-fisica della persona, le citate tabelle individuano il nuovo valore del c.d. "punto" partendo dal valore "punto", rivalutato, delle tabelle precedenti (relativo alla sola componente di danno non patrimoniale anatomo-funzionale, c.d. danno biologico permanente), aumentato, in riferimento all'inserimento nel valore di liquidazione "medio" previsto per quella determinata percentuale di invalidità permanente, anche della componente di danno non patrimoniale relativa alla "sofferenza soggettiva", di una percentuale ponderata, e prevedono inoltre percentuali massime di aumento da utilizzarsi in via di c.d. personalizzazione, laddove il caso concreto presenti peculiarità che vengano allegate e provate (anche in via presuntiva) dal danneggiato.

Esse appaiono dunque conformi ai principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella nota sentenza 26972/2008.

In essa, infatti, la Corte ha innanzitutto chiarito che "il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie", sicché "il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), rìsponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno" essendo viceversa "compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione".

Con riferimento, poi, a quella particolare componente del danno non patrimoniale rappresentato dalla sofferenza morale, la Cassazione ha precisato che, "definitivamente accantonata la figura del C.d. danno morale soggettivo", "la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale", in quanto tale risarcibile, a condizione, tuttavia, che si tratti "di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale", giacché, nella diversa ipotesi in cui vengano viceversa "lamentate degenerazioni patologiche della sofferenza ( ... ) si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente", con la conseguenza che "determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo",

Ciò premesso, il Supremo Consesso ha statuito che, una volta "esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza".

Per ciò che attiene, poi, alla prova di tali sofferenze, merita evidenziare come la Corte abbia rilevato che "attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri",

Da un'attenta lettura della citata pronuncia si ricava, dunque, che con essa le Sezioni Unite non hanno affatto precluso la possibilità, nel liquidare il danno da lesione dell'integrità psico-fisica, di ristorare altresì le ripercussioni che tale danno ha sulla sfera morale del danneggiato, ovverosia di tener conto della sofferenza soggettiva da costui patita per effetto della compromissione della predetta integrità.

I giudici di legittimità si sono, infatti, limitati ad affermare, per un verso, che poiché "il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici", la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, costituisce una duplicazione risarcitoria allorquando la sofferenza soggettiva che viene ad essere risarcita sotto tale voce di danno non riveste i caratteri di un mero turbamento dell'animo, di un intimo dolore di carattere transeunte, ma assume i connotati di un vero e proprio danno psichico; per altro verso hanno chiarito che anche nelle ipotesi in cui viene in rilievo una sofferenza soggettiva di carattere non patologico, "i danni non patrimoniali debbono essere liquidati in unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc.)" (Cass. n. t 9816/10).

Ebbene, le nuove tabelle elaborate per la liquidazione del danno non patrimoniale adottate dall'Osservatorio per la giustizia civile del Tribunale di Milano nel 2011 fanno corretta applicazione di tali principi, nella misura in cui muovono dalla presunzione, in base all'id quod plerumque accidit, che ogni lesione dell'integrità psico-fisica che cagioni una determinata percentuale di invalidità permanente produca, altresì, delle ripercussioni nella sfera dinamico-relazionale del soggetto danneggiato ed arrechi al medesimo una sofferenza soggettiva, l'entità delle quali è stata quantificata, come già evidenziato, sulla scorta di valori monetari "medi", corrispondenti al caso di incidenza della lesione in termini "standardizzabili" in quanto frequentemente ricorrenti (sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali, sia quanto agli aspetti relazionali, sia a quanto agli aspetti sofferenza soggettiva).

In tal modo esse consentono di pervenire ad una liquidazione unitaria dei diversi aspetti (danno biologico, danno alla vita di relazione, sofferenza soggettiva) del danno non patrimoniale da lesione dell'integrità psico-fisica.

Tali tabelle contengono, inoltre, per ogni punto di invalidità permanente, delle percentuali di aumento, al fine di pervenire ad un'adeguata personalizzazione della liquidazione, qualora, sulla base delle allegazioni e delle prove offerte dal danneggiato, emerga che l'entità dei predetti risvolti del danno non patrimoniale superi il valore medio previsto dalla tabella.

Venendo, dunque, alla quantificazione della somma spettante a S.S. a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale subito, considerata l'età dello stesso alla data del primo accertamento del cavernoma epatico nel luglio 2007, ovvero di due anni, rilevato che la lesione dell'integrità psico-fisica subita ha cagionato al medesimo, secondo quanto appurato dal c.t.u., un'invalidità permanente del 24% (così determinato nella misura intermedia tra i due valori indicati dai consulenti), ne deriva che al minore va riconosciuta, sulla scorta delle predette tabelle, la somma di E 141.453,75, a titolo di danno biologico per lesione dell' integrità psico-fisica, tenuto conto della natura e del grado di lesioni riportate.

La predetta somma, determinata in misura pari ai valori monetari medi indicati nelle citate tabelle, aumentati di un quarto, appare idonea al risarcimento del danno complessivamente subito, tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona e dell'entità della sofferenza.

Non appaiono infatti sussistenti, nel caso di specie, né tantomeno sono stati allegati, specifici elementi che possano indurre a quantificare il danno non patrimoniale di natura permanente subito dal bambino in misura superiore.

Va invece posto in rilievo che i CTU hanno evidenziato come, all'epoca attuale, la prognosi della trombosi portale non cirrotica è buona in quanto la condizione non è progressiva, per cui le varici possono regredire fino anche a scomparire per la formazione di circoli collaterali epatopeti.

E ciò induce a ritenere verosimile che il bambino pur dovendosi sottoporre a controlli periodici, non dovrà più essere sottoposto allo stress psico-fisico di ulteriori ripetuti interventi, come quelli già subiti.

Va altresì riconosciuta la somma di euro 10.170,00 a titolo di danno biologico da invalidità temporanea totale e parziale, secondo le valutazioni sulla durata delle stesse compiute dai CTU.

L'Azienda convenuta va dunque condannata alla corresponsione in favore del minore, come rappresentato in atti, della complessiva somma di euro 151.623,75 a titolo di danno biologico.

La predetta somma dovrà essere maggiorata degli interessi legali sulla somma anno per anno devalutata, dal luglio 2007 al saldo.

Per quanto attiene poi la domanda di risarcimento del danno da lucro cessante, deve rilevarsi che non risulta provato che la patologia, come sopra riscontrata, potrà influire sullo svolgimento da parte di Samuel di qualsivoglia attività lavorativa.

In assenza di prova, la domanda va dunque rigettata.

Passando all'esame della richiesta di risarcimento del danno morale derivato ai genitori per effetto della patologia contratta dal figlio in ragione dell'errore compiuto dai sanitari, va dato atto della giurisprudenza della Suprema Corte che, con pronunce di segno costante, afferma che al genitore di persona che abbia subito una grave lesione quale esito di un intervento non corretto spetta il risarcimento del danno non patrimoniale sofferto in conseguenza di tale evento, dovendo ai fini della liquidazione del relativo ristoro tenersi in considerazione la sofferenza (o patema d'animo) anche sotto il profilo della sua degenerazione in obiettivi profili relazionali.

La prova di tale danno può essere data anche con presunzioni.

Ne consegue che in presenza dell'allegazione del fatto-base delle gravi lesioni subite dal figlio convivente, il giudice deve ritenere provata la sofferenza inferiore (o patema d'animo) e lo sconvolgimento dell'esistenza che (anche) per la madre ne derivano, dovendo, nella liquidazione dei relativo ristoro, tenere conto di entrambi i suddetti profili. Incombe alla parte a cui sfavore opera la presunzione dare la prova contraria idonea a vincerla, con valutazione al riguardo spettante al giudice di merito (cfr. in tal senso Cass. civ. n. 2228/2012).

Tanto premesso deve ritenersi, da un lato, che le lesioni subite da S. non possono sicuramente definirsi gravi, e ciò in considerazione sia del tipo di patologia, sia della valutazione in termini percentuali della menomazione, effettuata dai CTU.

Va altresì escluso a priori che la malattia che occupa sia in qualche modo idonea ad influire, pregiudicandola, sulla relazione tra i genitori e il piccolo S.

D'altro lato, va sottolineato, viceversa, che il fatto che il bambino, oltre ad affrontare le problematiche derivanti dalla sofferenza pre-natale, sia costretto altresì a scontrarsi con la patologia per cui è causa, sicuramente è circostanza che non può che essere fonte di particolare e ulteriore dolore e preoccupazione per i genitori.

Tenuto conto degli elementi sopra evidenziati, pare allora equo determinare il danno morale subito dagli attori nella misura di euro 10.000,00 ciascuno.

La convenuta va dunque condannata al pagamento in favore degli attori della predetta somma, oltre interessi legali sulla somma anno per anno devalutata, dal luglio 2007 al saldo.

Va infine esaminata la domanda di risarcimento del danno patrimoniale.

Gli odierni attori hanno dedotto, in proposito, che hanno subito e continueranno a subire un aggravio di costi connessi alla necessità di mantenere il figlio e di garantirgli la costante assistenza da parte di un personale specializzato (vedi pag. 7 atto di citazione).

Sul punto deve rilevarsi, da un lato che le esigenze come sopra indicate non appaiono in alcun modo ricollegabili alla patologia per cui è causa, ritenuta riconducibile al comportamento colposo dei medici dell'Unità di Terapia Intensiva.

Con riferimento invece alle spese sopportate e a quelle preventivabili in relazione a detta patologia, manca agli atti qualsivoglia elemento probatorio.

L'assenza di prova in ordine all'an della pretesa avanzata preclude anche la richiesta liquidazione in via equitativa.

La difficoltà dell'accertamento in fatto e la complessità giuridica della fattispecie, che presenta orientamenti giurisprudenziali discordanti sul punto, costituiscono grave motivo ai sensi dell'art. 92 c.p.c. per disporre la parziale compensazione tra le parti delle spese di lite.

Le spese di CTU vanno invece poste in via definitiva a carico della convenuta.

P.Q.M.

Il Tribunale di Lecce, defìnitivamente pronunciando, così provvede:

  1. I.Accoglie la domanda per quanto di ragione e per l'effetto condanna la Azienda Sanitaria Locale Lecce, in persona del legale rappresentante p.t., alla corresponsione in favore del minore S.S., come in atti rappresentato, della somma di euro 151.623,75, oltre accessori come in motivazione.
  2. II.Condanna altresì l'Azienda convenuta alla corresponsione in favore di S.C. e F.P., in proprio, della somma di euro 10.000,00 ciascuno, oltre accessori come in motivazione.
  3. III.Condanna il convenuto alla rifusione in favore degli attori di un mezzo delle spese di lite liquidato in complessivi euro 2.820,00 di cui euro 220,00 per spese ed euro 2.600,00 per compensi, oltre IV A e CPA come per legge.
  4. IV. Pone definitivamente in capo al convenuto le spese di CTU già liquidate con separato decreto.

Lecce, 27 gennaio 2014