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In caso di amputazione dell'arto che poteva essere evitata, l'ASL è tenuta al risarcimento di tutti i danni patiti dal danneggiato nonchè dai prossimi congiunti, pur ove intervenuti successivamente nel processo già pendente.

Grava sull'attore l'onere di provare, anche in via presuntiva, la sussistenza di quelle peculiarità attinenti agli aspetti anatomo-funzionali e relazionali ed agli aspetti di sofferenza soggettiva, in presenza delle quali può essere accordato l'aumento a titolo di "personalizzazione" consentito dalle tabelle suddette. Nel caso di specie occorre considerare la giovane età dell'attore all'epoca dei fatti (anni 41), l'amputazione del braccio sinistro subita (trattandosi peraltro del braccio dominante essendo egli mancino) e le gravi ed evidenti ripercussioni psicologiche, sia sotto il profilo della sofferenza morale che delle dinamiche relazionali, derivanti dal dover usare per tutta la vita una protesi. Ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, pur ove gli stessi congiunti siano intervenuti volontariamente in un processo già pendente.

Tribunale di Brindisi – Sezione unica civile, dott. Pietro Lisi – Sentenza n. 686 del 9 aprile 2014

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In Nome Del Popolo Italiano

IL TRIBUNALE DI BRINDISI

Sezione Unica Civile

in composizione monocratica nella persona del Giudice Unico dott. Pietro Lisi ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta sotto il numero d'ordine 2118 del Ruolo Generale degli Affari

promossa da:

R.G., rappresentato e difeso dagli Avv. Giovanna Passiatore e Francesco Burigana,                           - attore-

CONTRO

A.U.S.L. BR/l, 

nonchè

R.G. e A.A., in qualità di genitori esercenti la potestà sui minori, nonché A.A. in proprio, ,                                                                   interventori volontari -

Le conclusioni sono state precisate all'udienza del 22.10.2013, il cui verbale deve intendersi qui integralmente riportato e trascritto.

FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato R.G. conveniva m giudizio innanzi a questo Tribunale la Ausl Br/l, chiedendone la condanna al risarcimento di tutti i danni (patrimoniale, biologico, morale ed esistenziale), patiti da esso attore, in occasione del ricovero ospedaliero e dell'intervento chirurgico eseguito presso l'Ospedale Perrino in Brindisi in data 9.2.04, e quantificati in complessivi euro 1.500.000,00, oltre interessi e danni da degrado monetario dal dì dell' evento e sino al soddisfo, ovvero della maggiore o minore somma ritenuta di giustizia.

Instaurato il contraddittorio, si costituiva la Ausl Br/l, chiedendo il rigetto della domanda di parte attrice.

In data 18.2.09 si costituivano altresì A.A., coniuge dell'attore, sia in proprio che (unitamente al R.) in qualità di genitore esercenti la potestà sui minori, spiegando intervento volontario ex art. 105 c.p.c. e chiedendo il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, patiti iure proprio, e quantificati in euro 200.000,00 cadauno, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

La domanda attorea è fondata e merita accoglimento, nei limiti e per i motivi che seguono.

Dall'esame degli atti di causa, ed in particolare della CTU medico-legale espletata, si desume che l'odierno attore subiva un sinistro al braccio sinistro, mentre era intento a tagliare un asse di legno con una sega circolare all'interno dei locali di falegnameria della società di arredamenti, di cui era legale rappresentante, e specializzata nella vendita di mobili e nella riparazione e creazione artigianale degli stessi.

Pertanto veniva dapprima trasportato presso il Pronto Soccorso dell'Ospedale di Francavilla Fontana, ove gli veniva diagnosticata "amputazione subtotale 3° superiore arto superiore sinistro, trauma addominale", e, subito dopo, trasferito presso l'Ospedale Perrino di Brindisi, ove giungeva alle ore 10.34 con diagnosi di "amputazione subtotale 3° superiore sinistro" e sottoposto d'urgenza ad intervento chirurgico di anastomosi termino-terminale a punti staccati previa recentazione dei margini chirurgo-vascolari.

In data 12.2.04 l'attore si dimetteva volontariamente dall'Ospedale di Brindisi, ricoverandosi il giorno stesso presso il Policlinico di Bari, ove veniva eseguita la diagnosi di ingresso di "esiti di amputazione sub totale 3° distale".

Nel corso di tale ricovero subiva altri quattro interventi chirurgici e segnatamente:

1) in data 7.3.04 un primo intervento con isolamento a monte e legatura dell' arteria omerale, emostasi con legatura di rami venosi ed arterioso collaterale,

2) in data 8.3.04 altro intervento con diagnosi di "vasta perdita di sostanza del braccio ed avambraccio sinistro in paziente con occlusione trombotica dell'arteria brachiale e dei suoi rami",

3) in data 9.3.04 intervento di "trombectomia del by pass" per trombosi completa del by pass;

4) in data 1l.3.04 intervento di amputazione del braccio sinistro, con diagnosi di "gangrena umida avambraccio e mano sinistra in paziente con by pass succlavio radiale sinistro occluso".

Così descritto l'iter dei trattamenti medici ricevuti dal R., giova premettere alcune considerazioni di carattere generale in materia di responsabilità civile della struttura sanitaria.

In primo luogo deve essere ribadito il principio consolidato a mente del quale il rapporto che si instaura tra il paziente e 1'ente sanitario ha natura contrattuale.

In particolare, con l'accettazione del paziente nella struttura deputata a prestare assistenza sanitaria ed ospedaliera, ai fini del ricovero o di prestazioni ambulatoriali, sorge un contratto di prestazione d'opera atipico (c.d, contratto di spedalità) che ha ad oggetto, oltre alla prestazione sanitaria stricto sensu intesa, anche la messa a disposizione di personale ausiliario, mezzi tecnici e farmaci e, se del caso, ulteriori prestazioni di carattere alberghiero. L'ente, in sostanza, si impegna nei confronti del paziente a fornire adeguate prestazioni assistenziali attraverso la predisposizione di strutture e risorse umane efficienti.

Ne deriva, allora, che la responsabilità dell'ente ospedaliero nei confronti del paziente ha natura contrattuale ai sensi dell'art. 1218 c.c. e può derivare sta dall'inadempimento delle obbligazioni poste direttamente a suo carico che, ex art. 1228 c.c., dall'inadempimento della prestazione medico professionale svolta direttamente dal sanitario in qualità di suo ausiliario necessario (cfr., tra le tante pronunce della Suprema Corte, Cass., sez. III, n. 882612007).

La natura contrattuale della responsabilità de qua impone l'applicazione degli ormai noti principi affermati dalle Sezioni Unite sul regime della prova dell'inadempimento (cfr. Cass., S.U., n. 1353312001) secondo i quali il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento, deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento (cfr. ex multis Cass. n. 1029712004).

Specificamente la Suprema Corte (Cass S.U. 577/08) ha statuito che nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno causato da un errore del medico o della struttura sanitaria, al quale sono applicabili le regole sulla responsabilità contrattuale ivi comprese quelle sul riparto dell'onere della prova, l'attore ha il solo onere - ex art. 1218 c.c. - di allegare e provare l'esistenza del contratto, e di allegare l'esistenza d'un valido nesso causale tra l'errore del medico e l'aggravamento delle proprie condizioni di salute, mentre spetterà al convenuto dimostrare o che inadempimento non vi è stato, ovvero che esso pur essendo sussistente non è stato la causa efficiente dei danni lamentati dall'attore (essendo sopravvenuto, nella serie causale che dall'intervento ha condotto all'evento di danno, un fatto inevitabile o imprevedibile).

Ed ancora "nelle fattispecie di responsabilità contrattuale, la prova dell'assenza di colpa medica grava sempre sul professionista-debitore; quando l'intervento fallito è un' operazione di routine per il sanitario, il paziente è tenuto soltanto a provare il rapporto intercorso con il professionista e si può limitare ad allegare le conseguenze negative". (Cassazione civile, sez. III, 14 febbraio 2008, n. 3520).

Quanto all'accertamento della colpa del sanitario, è d'uopo premettere che la responsabilità colposa postula una condotta che, sebbene non diretta alla produzione dell'evento lesivo, realizza detto evento per effetto della negligente condotta dell'agente.

Alla base della responsabilità colposa vi è allora la violazione di una o più regole cautelari di condotta, violazione che determina un evento lesivo costituente realizzazione specifica del rischio che la norma precauzionale mirava a scongiurare.

Più in particolare, alla base delle norme precauzionali di condotta - siano esse di diligenza, di prudenza o di perizia, abbiano esse un contenuto generico o specifico - vi sono regole di esperienza ricavate da giudizi ripetuti nel tempo sulla pericolosità dei comportamenti umani, e sui mezzi più adatti ad evitarne le conseguenze.

Mezzi che devono essere non già quelli soggettivamente a disposizione dell'agente, bensì quelli oggettivamente imposti - in base alla migliore scienza ed esperienza - a carico di soggetti espletanti un determinato tipo di attività.

Sotto questo profilo, si suole pertanto comunemente affermare che le regole di diligenza proprie dei vari contesti di riferimento rappresentano la "cristallizzazione" dei giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo, non essendo altro la prevedibilità che la possibilità dell'uomo coscienzioso ed avveduto, dell'homo eiusdem professionis et condicionis, di cogliere che un certo evento è legato alla violazione di un determinato dovere oggettivo di diligenza, che un certo evento è evitabile adottando determinate regole di prudenza.

In definitiva, ciò che l'ordinamento rimprovera all'agente è di non aver osservato lo standard di diligenza richiesto dalla situazione concreta, di non avere cioè attivato quei poteri di controllo e di impulso che doveva e poteva attivare, in quel contesto spazio-temporale, al fine di scongiurare l'evento lesivo.

In altre parole, ciò che si rimprovera all'agente è di non avere attivato quelle regole che, sulla base della miglior scienza ed esperienza, gli imponevano - o gli vietavano - un certo tipo di attività.

Al riguardo, in base al combinato disposto di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c. la diligenza richiesta è non già quella ordinaria, del buon padre di famiglia (cfr. Cass., 13/112005, n. 583) bensì quella ordinaria del buon professionista (v. Cass., 31/512006, n. 12995), e cioè la diligenza normalmente adeguata in ragione del tipo di attività e alle relative modalità di esecuzione.

Nell'adempimento dell'obbligazione professionale va infatti osservata la diligenza qualificata ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, (che costituisce aspetto del concetto unitario posto dall'art. 1174 c.c.: cfr. Cass., 28/512004, n. 10297; Cass., 22/12/1999, n. 589), quale modello di condotta che si estrinseca (sia esso professionista o imprenditore) nell'adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell'interesse creditorio, nonché ad evitare possibili eventi dannosi (v. Cass., 31/512006, n. 12995).

Al riguardo si è ulteriormente precisato che il criterio della normalità va valutato con riferimento alla diligenza media richiesta, ai sensi dell'art. 1176 C.C., comma 2, avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell'attività esercitata (cfr. Cass., n. 1525512005).

Inoltre la limitazione di responsabilità professionale del medico ai casi di dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c. si applica nelle sole ipotesi che presentano problemi tecnici di particolare difficoltà, in ogni caso attenendo ciò esclusivamente all'imperizia e non anche all'imprudenza e alla negligenza (v. Cass., 19/412006, n. 9085; Cass., 14448/2004).

Quanto all' onere probatorio, la Suprema Corte ha osservato che "spetta al medico-debitore la prova della mancanza di colpa ("sub specie" della sopravvenienza, nella serie causale che dall'intervento ha condotto all'evento di danno, di un fatto inevitabile o imprevedibile), mentre il paziente è tenuto soltanto a provare il rapporto (nella specie, contrattuale) con il professionista e la riferibilità a quest'ultimo dell'intervento, allegando il risultato peggiorativo conseguito". (Cassazione civile, sez. III, 14 febbraio 2008, n. 3520).

Ed ancora "nelle fattispecie di responsabilità contrattuale, la prova dell' assenza di colpa medica grava sempre sul professionista-debitore; quando l'intervento fallito è un' operazione di routine per il sanitario, il paziente è tenuto soltanto a provare il rapporto intercorso con il professionista e si può limitare ad allegare le conseguenze negative". (Cassazione civile, sez. III, 14 febbraio 2008, n. 3520).

Tanto premesso, si osserva che alla luce delle risultanze della CTU (il cui contenuto deve intendersi integralmente riportato e trascritto in questa sede, in quanto assolutamente rigorosa sul piano logico-scientifico, priva di lacune o contraddizioni e dunque pienamente condivisibile) può ragionevolmente affermarsi che il personale medico dell'Ospedale "Perrino" di Brindisi tenne condotte colpose nel trattamento sanitario dell'odierno attore.

In particolare il CTU osserva, in modo condivisibile, che vi fu un errore medico da parte dei chirurghi vascolari che eseguirono l'intervento chirurgico del 9.2.04 - peraltro in documentato disaccordo con gli ortopedici della medesima struttura ospedaliera - in quanto decisero di non attendere la previa riduzione e stabilizzazione delle fratture, che avrebbe consentito un ottimale trattamento della lesione vascolare, nonché evitato la tensione dei tessuti molli e la deiscenza della sutura cutanea, sede di sovrapposizione flogistico infettiva, documentata dagli esami istologici eseguiti dapprima (in data 12.2.04) presso lo stesso Ospedale di Brindisi, e di poi, presso il Policlinico di Bari (in data 16.2.04).

Palese è dunque la responsabilità dei chirurghi vascolari, per non aver atteso un secondo tempo operatorio, possibile con il mantenimento dell'arto sub-amputato a basse temperature, e per aver effettuato una sutura diretta senza protesi.

Rileva inoltre il CTU anche una concorrente responsabilità degli ortopedici del nosocomio brindisino, per non aver effettuato una riduzione con accorciamento dell'arto, che avrebbe potuto prevenire la tensione della sutura arteriosa e dei tessuti muscolo­cutanei.

Risulta, dunque, certamente provata la responsabilità risarcitoria della convenuta, m quanto le condotte dei sanitari del nosocomio brindisino furono certamente caratterizzate da negligenza ed imprudenza.

Il CTU osserva inoltre che anche nel trattamento sanitario ricevuto dall' odierno attore presso il Policlinico di Bari sono ravvisabili profili di colpa da parte dei sanitari, ed in particolare per non avere, in occasione dell'intervento chirurgico del 7.3.04 diretto alla legatura dell' arteria omerale sede di emorragia, immediatamente e contestualmente proceduto alla rivascolarizzazione dell'arto.

Ciò risulta comprovato anche alla luce del fatto che al momento del ricovero vi era ancora una discreta irrorazione del braccio sinistro.

Tale rivascolarizzazione venne eseguita solo in un successivo intervento chirurgico, allorché la necrosi a valle era ormai inemendabile, e necessitava di amputazione.

Il CTU ipotizza, senza tuttavia alcun margine di certezza, che in assenza di tale ritardo si sarebbe potuto ottenere la conservazione dell' arto, seppure con postumi permanenti significativi a livello anatomo-funzionale.

Occorre, tuttavia, evidenziare che la corresponsabilità dei sanitari del Policlinico di Bari (peraltro non evocato in giudizio né dall' attore né dalla convenuta in regresso) non può determinare una riduzione del risarcimento dovuto dalla Ausl Br/I.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, infatti, "quando un medesimo danno è provocato da più soggetti, per inadempimenti di contratti diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base dell'estensione alla responsabilità contrattuale della norma dell'art. 2055 c.c., dettata per la responsabilità extracontrattuale, quanto perché, sia in tema di responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell'obbligo risarcitorio, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dell'evento (dei quali, del resto, ['art. 2055 costituisce un'esplicitazione), che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo. (Fattispecie relativa a danno alla salute subito da una paziente per trattamenti medici inidonei, ascrivibili in parte alla casa di cura presso cui era stata ricoverata e in parte al medico curante dopo la dimissione)". (Cass., sez. III, n. 23918/06).

Occorre considerare, infatti, che in tema di causalità l'art. 41 c.p. introduce un principio di uguaglianza delle cause, stabilendo che il concorso di cause (nel caso di specie sopravvenuta) non esclude il nesso di causalità tra la condotta e l'evento, salvo che si tratti di cause da sole sufficienti a cagionare l'evento.

Nel caso di specie è evidente che la condotta dei sanitari dell'Ospedale di Brindisi ha avuto un'efficienza causale obiettiva e rilevante nella causazione della perdita dell'arto sinistro subita dal R., e la concorrente e successiva condotta colposa dei sanitari del Policlinico di Bari, sebbene abbia contribuito ad aggravare i postumi permanenti riportati dall'attore, non può certo essere considerata tale da escludere il nesso di causalità con la condotta antecedente dei sanitari brindisini, in quanto essa ha realizzato una condizione essenziale per la produzione dell'evento lesivo.

Passando al profilo del quantum debeatur, il CTU ha osservato in modo condivisibile (vedi in particolare la relazione integrativa depositata il 26.4.12) che, al fine di stimare l'invalidità permanente dell'attore - che sia conseguenza immediata e diretta della condotta colposa dei sanitari dell'Ospedale Perrino - occorre considerare che anche nel caso di intervento ottimale, eseguito in modo perfetto, sarebbe comunque residuato un danno permanente significativo a carico dell'attore.

Occorre, infatti, considerare sotto questo profilo la gravità della lesione iniziale, che determinava una sub-amputazione dell'arto con sofferenza dei tessuti molli, vascolari e nervosi, oltre che della continuità ossea, ditalchè, anche a fronte di trattamenti ottimali, si sarebbe avuta una marcata perdita della fisiologica efficienza dell' arto superiore sinistro.

Pertanto il CTU ha correttamente stimato il maggior danno non patrimoniale permanente in misura del 40%, così come anche il maggior danno alla capacità lavorativa specifica nella medesima misura, alla luce dell'attività espletata di artigiano-imprenditore nel settore falegnameria, e considerando che la perdita del braccio sinistro (peraltro in parte compensata dal corretto posizionamento di protesi mioelettrica, la cui buona tolleranza è dimostrata dall' assenza di turbe del trofismo tissutale del moncone di amputazione) incide significativamente sull'attività artigianale diretta, di tipo manuale, ma non anche su quella di direzione dell'impresa e dell'attività dei dipendenti.

Quanto al maggior danno non patrimoniale temporaneo, il CTU lo ha stimato in giorni 30 di inabilità temporanea totale ed in ulteriori giorni 60 di inabilità parziale al 70%.

Va preliminarmente disattesa l'eccezione sollevata dalla convenuta in comparsa di risposta, secondo cui l'ammontare del risarcimento dovrebbe essere limitato al c.d. danno differenziale, e cioè al maggior danno non indennizzato dall' Inail, trattandosi di infortunio patito sul lavoro, con conseguente percezione da parte dell' attore del relativo indennizzo previsto per legge.

Trattasi, infatti, di eccezione tardivamente formulata, in quanto la convenuta si costituiva soltanto alla prima udienza, decadendo così, ex art. 167 c.p.c., dalla facoltà di sollevare eccezioni non rilevabili d'ufficio.

Né può evidentemente ritenersi che si tratti di questione rilevabile d'ufficio, non ricorrendo ragioni di pubblico interesse che sole giustificano il rilievo d'ufficio.

Peraltro va rilevato, per inciso, che nel caso di specie l'infortunio subito sul lavoro dall'attore non coincide con l'evento lesivo oggetto del presente giudizio, nel quale viene in rilievo la responsabilità risarcitoria della convenuta per fatto colposo commesso dai propri dipendenti successivamente all'infortunio de quo, ed essendo il risarcimento limitato ai danni ulteriori rispetto a quelli che sarebbero comunque residuati a seguito dell'infortunio, pur a fronte di condotte dei sanitari correttamente poste in essere.

Ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale in favore dell' attore, si reputa corretto applicare le Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale per l'anno 2013 in uso presso il Tribunale di Milano, in quanto pienamente condivisibili nei principi ispiratori e nella metodologia utilizzata.

Inoltre la Suprema Corte in una recente pronuncia ha osservato che "i valori di riferimento per la liquidazione del danno alla persona adottati dal Tribunale di Milano, dei quali è già riconosciuta nei fatti una sorta di vocazione nazionale, costituiscono d'ora innanzi, per la giurisprudenza di questa Corte, il valore da ritenersi "equo", e cioè in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entità" (Cass., sez. III, n. 12408/2011).

Pertanto, spettano all'attore le seguenti somme determinate sulla base delle ridette tabelle in uso presso il Tribunale di Milano, che si condividono pienamente anche con riferimento alle note illustrative che le precedono ed alle quali si fa espresso rinvio:

euro 248.340,16 a titolo di invalidità permanente pari al 40% riferita ad un individuo di 41 anni (all'epoca del fatto);

euro 7.200,00 a titolo di danno non patrimoniale temporaneo (applicando un valore pari a euro 100,00 per ciascun giorno di invalidità temporanea al 100%).

Si perviene, dunque, alla complessiva somma di euro 255.540,16.

Quanto alla richiesta di risarcimento del danno morale ed esistenziale, va osservato che il valore del punto di invalidità è comprensivo del danno biologico permanente relativo all'integrità psicofisica già aumentato di una percentuale ponderata della componente di danno non patrimoniale relativa alla "sofferenza soggettiva" (c.d. danno morale), come chiaramente esplicitato nelle ridette note illustrative delle ridette tabelle.

Grava sull'attore l'onere di provare, anche in via presuntiva, la sussistenza di quelle peculiarità attinenti agli aspetti anatomo-funzionali e relazionali ed agli aspetti di sofferenza soggettiva, in presenza delle quali può essere accordato l'aumento a titolo di "personalizzazione" consentito dalle tabelle suddette.

Nel caso di specie occorre considerare la giovane età dell'attore all'epoca dei fatti (anni 41), l'amputazione del braccio sinistro subita (trattandosi peraltro del braccio dominante essendo egli mancino) e le gravi ed evidenti ripercussioni psicologiche, sia sotto il profilo della sofferenza morale che delle dinamiche relazionali, derivanti dal dover usare per tutta la vita una protesi.

Peraltro il teste, amico del R,, ha riferito come l'attore facesse vita ritirata a seguito del sinistro, rimanendo spesso in casa e rifiutando la compagnia degli altri.

Pertanto si reputa equo aumentare la ridetta somma fino ad euro 300.000,00.

Tale importo è liquidato al valore attuale, atteso che le tabelle di liquidazione danni cui si è fatto complessivamente riferimento (Tribunale Milano) sono aggiornate al 2013 e sono dunque dovuti i soli interessi compensativi nella misura legale, da calcolarsi devalutando tale somma al 9.2.04, dì dell'evento (mercè l'applicazione degli indici Istat) ed applicandoli sulla somma rivalutata anno per anno.

Dal dì della pubblicazione della presente decisione e fino al soddisfo, spettano all'attore gli interessi legali su tale somma, operando la conversione da debito di valore in debito di valuta.

Quanto al danno patrimoniale, spetta all'attore in primo luogo il rimborso delle spese mediche sostenute in dipendenza della colposa colposa dei sanitari, ammontanti ad euro 6.000,00, e ritenute congrue dal consulente.

Su tale somma sono dovuti gli interessi legali sulla somma rivalutata anno per anno a decorrere dai singoli esborsi e sino al soddisfo.

Difatti, secondo l'insegnamento della Suprema Corte, "in tema di valutazione e liquidazione del danno da fatto illecito, qualora il danneggiato abbia provveduto a proprie spese ad eliminare o ridurre le conseguenze pregiudizievoli derivate dal fatto medesimo, l'obbligazione risarcitoria del responsabile non perde la natura di debito di valore, in quanto diretta a reintegrare il patrimonio di detto danneggiato nella sua originaria consistenza, e, pertanto, deve essere quantificata, pure in grado d'appello ed anche d'ufficio, adeguando l'ammontare degli indicati esborsi al mutato potere d'acquisto della moneta; tale adeguamento va effettuato non con riferimento alla data del fatto ma a quella dei singoli esborsi" (Cass., n. 233512001).

In ordine al danno da perdita della capacità lavorativa specifica, quantificata dal CTU in misura del 40%, si osserva che avendo l'attore fornito la prova dell'attività lavorativa svolta (titolare di un'impresa di arredamenti e falegnameria), e non essendo stata fornita, tuttavia, la prova del reddito derivante dallo svolgimento della stessa, può certamente trovare applicazione il principio interpretativo, oramai consolidato nella prassi giudiziale, secondo cui la soglia minima da considerare ai fini della quantificazione del risarcimento per ridotta capacità lavorativa è quella pari al triplo della pensione sociale (da ultimo Cass. 15/5/2012 n. 7531); criterio di commisurazione cui - per la sua idoneità ad assicurare una tutela minima di un diritto non privo di rilevanza costituzionale - deve riconoscersi valenza generale.

Facendo applicazione al caso di specie del suddetto principio (ed, in particolare, del metodo della "capitalizzazione indicizzata"), il calcolo della liquidazione (L) si effettua moltiplicando il reddito fiscale annuale (R), del soggetto all'epoca del sinistro - in tal caso, pari al triplo della pensione sociale per l'anno 2013 (pari ad euro 5.749,90 per l'anno 2013) ovvero euro 17.249,70 - per la percentuale di riduzione della capacità lavorativa specifica (40%) e per il coefficiente (c) corrispondente all'età del soggetto desunto dalle tabelle per la costituzione delle rendite vitalizie immediate di cui al r.d. 1403/1922, in tal caso pari a 15,994, il tutto diviso per 100: L == R x %1 x c /100. Il valore così ottenuto, in tal caso pari ad euro 110.356,68, viene tradizionalmente ridotto del 10- 30% per compensare lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa (maggiore nelle attività dipendenti manuali o impiegatizie, minore nelle attività autonome e nelle professioni intellettuali).

Nondimeno, ritiene questo Giudice che, adottandosi i coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle di cui al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403, e, quindi, un parametro di quantificazione risalente nel tempo, sia necessario adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate.

Occorre, infatti, tenere conto dell'aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale e, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di "personalizzare" il criterio adottato al caso concreto, si deve "attualizzare" lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa (Cass. sentenza 5 giugno 2012, n. 8985).

A tale seconda opzione intende aderire questo Giudice, in quanto idonea ad assicurare la rispondenza della misura risarcitoria al pregiudizio realmente subito dall' attrice.

E' pertanto dovuta, a titolo di danno patrimoniale da riduzione della capacità lavorativa specifica, la somma di euro 110.356,68, su cui saranno dovuti gli interessi legali sulla somma devalutata al 9.2.04 e rivalutata anno per anno.

Dal dì della pubblicazione della presente sentenza saranno dovuti gli interessi legali sino al soddisfo.

Occorre a questo punto esaminare la domanda di risarcimento del danno proposta dalla A., coniuge dell' attore, e da entrambi quali genitori dei (figli) minori.

Va in primo luogo disattesa l'eccezione di inammissibilità di tali domande, sollevata dalla convenuta, la quale ha dedotto che, poiché l'art. 268 c.p.c. preclude al terzo interventore di compiere atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte, ed avendo essi spiegato intervento successivamente alla prima udienza ex art. 183 c.p.c., sarebbe stata preclusa loro la proposizione di domande nuove.

L'assunto è infondato, alla luce della consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui "la preclusione ex art. 268 c.p.c.. non opera in relazione all'attività assertiva del volontario interveniente, il quale può, quindi, proporre domande nuove in seno al procedimento, fino alla precisazione delle conclusioni, con l'unico limite del rispetto delle preclusioni istruttorie già maturate per le parti originarie"(Cass., sez. III; n.23759/2011).

Ed ancora "chi interviene volontariamente in un processo già pendente ha sempre la facoltà di formulare domande nei confronti delle altre parti. quand'anche sia ormai spirato il termine di cui all'art. 183 C.p.c. per la fissazione del thema decidendum; né tale interpretazione dell'art. 268 C.p.c. viola il principio di ragionevole durata del processo o il diritto di difesa delle parti originarie del giudizio; infatti, l'interveniente, dovendo accettare il processo nello stato in cui si trova, non può dedurre, ove sia già intervenuta la relativa preclusione, nuove prove e, di conseguenza, non vi è il rischio di riapertura dell'istruzione, né quello che la causa possa essere decisa sulla base di fonti di prova che le parti originarie non abbiano potuto debitamente contrastare" (Cass., sez. II, n. 15208/2011) .

Tanto premesso, quanto alla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio, già a far tempo da Cass. S.U. n. 9556/02, la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio secondo cui "ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell'art. 1223 c.c. - richiamato dall'art. 2056 c.c. -, in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso; ne consegue che in tal caso il congiunto è legittimato ad agire iure proprio contro il responsabile" (in senso conforme, V. Cass. n. 2388/03; Cass. n. 19316/05; Cass. n. 8546/08).

In tal caso, costituendo il danno morale un patema d'animo e quindi una sofferenza interna del soggetto, esso va accertato in base ad indizi e presunzioni che. anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (v. Cass. n. 11001/03; Cass. n. 23291/04; Cass. n. 10996/03; Cass. n. 13754/06; n. 23865/06; Cass. n. 19316/05).

Né tale giurisprudenza appare contraddetta dal sopra citato orientamento della Suprema Corte S.U. del 18.11.2008, che non esclude la configurabilità del danno morale, ma, al fine di evitare la duplicazione del danno non patrimoniale, fissa il principio dell'unicità dello stesso, che va liquidato tenendo conto anche dei patemi psicologici sofferti dal danneggiato.

Nel caso di specie, si ritiene che A.A. + 2, rispettivamente coniuge e figli della vittima, tutti con lui conviventi, abbiano subito un danno non patrimoniale in conseguenza del fatto de quo, a seguito delle gravi lesioni (amputazione del braccio sinistro) subite dal proprio congiunto, che hanno certamente compromesso in modo irrimediabile la stretta relazione familiare esistente con il coniuge, nonché quella con i figli, entrambi minori e conviventi.

Ai fini della liquidazione equitativa, appare, poi, opportuno fare riferimento alla personalizzazione del danno non patrimoniale applicato, sulla base delle tabelle di Milano, per l'anno 2013, all'attore e quantificato in euro 300.000,00.

Alla luce di tale criterio e delle considerazioni sopra evidenziate, appare equo liquidare al coniuge la somma attualizzata di euro 75.000,00 (pari a un quarto dell'importo di cui sopra) ed a ciascun figlio la somma attualizzata di euro 35.000,00.

Su tali importi sono dovuti gli interessi legali sulla somma devalutata al 9.2.04 e rivalutata anno per anno.

Dal dì della pubblicazione della presente sentenza saranno dovuti gli interessi legali sino al soddisfo.

Nulla è dovuto, infine, a titolo di danno patrimoniale, in quanto la dedotta riduzione del tenore di vita, per effetto della riduzione della capacità lavorativa specifica dell'attore, costituisce voce di danno già riconosciuta e risarcita, come detto, a quest'ultimo, e dunque riconoscere un ulteriore danno patrimoniale iure proprio anche ai famigliari della vittima determinerebbe, evidentemente, una duplicazione del risarcimento.

La convenuta va condannata alla rifusione delle spese di lite in favore dell'attore e degli interventori in ragione della soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo e con il richiesto beneficio della distrazione ex art. 93 c.p.c.

A vendo gli interventori la stessa posizione processuale dell' attore, va liquidato ai due difensori comuni un compenso unico ex art. 4, comma 4, d.m. 140/2012 (recante la nuova tariffa forense), aumentato nel caso di specie della metà, pervenendosi all'importo finale indicato in dispositivo.

Spese di CTU a definitivo ed integrale carico della convenuta.

P. Q. M.

Il Tribunale di Brindisi, in persona del Giudice Unico dott. Pietro Lisi, definitivamente pronunciando nella causa n. 144912006 R.G., ogni diversa istanza, deduzione o eccezione disattesa, così provvede:

- condanna la Ausl Br/l al pagamento in favore di R.G., per le causali di cui in premessa, della somma di euro 300.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, oltre interessi legali con le modalità e la decorrenza di cui in motivazione; della somma di euro 6.000,00 a titolo di danno patrimoniale per spese mediche, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria con le modalità e la decorrenza di cui m motivazione; nonché della somma di euro 110.356,68, oltre interessi legali con le modalità e la decorrenza di cui in motivazione;

condanna Ausl Br/I al pagamento in favore di A.A., per le causali di cui in premessa, della somma di euro 75.000,00, oltre interessi legali con le modalità e la decorrenza di cui in motivazione;

condanna Ausl Br/I al pagamento in favore di R.G. e A.A., in qualità di genitori esercenti la potestà su(i figli minori), della somma di euro 35.000,00 per ciascuno di essi, per le causali di cui in premessa, oltre interessi legali con le modalità e la decorrenza di cui in motivazione;

- condanna la convenuta alla rifusione delle spese di lite sostenute dall'attore e dagli interventori, con distrazione ai difensori antistatari ex art. 93 C.p.c., spese liquidate in complessivi euro 14.600,00, oltre iva e cap come per legge;

- spese di CTU a definitivo ed integrale