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Il ministero della salute è tenuto a risarcire i danni da infezione conseguente ad emotrasfusione.

Ai fini della liquidazione del danno biologico, l'età assume rilevanza in quanto col suo crescere diminuisce l'aspettativa di vita.

Tribunale di Lecce – Giudice monocratico, dott. Maurizio Rubino – Sentenza del 21 maggio 2014

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TRIBUNALE DI LECCE

Repubblica Italiana

In Nome del Popolo Italiano

Il Tribunale di Lecce, in composizione monocratica in persona del Giudice dott. Maurizio Rubino, ha emesso la seguente

SENTENZA

Nella causa iscritta al n. 530112006 RG., avente ad oggetto azione di risarcimento danni da responsabilità extracontrattuale

PROMOSSA DA

C.L.,                           ATTRICE

CONTRO

MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del ministro p.t., rappresentato e difeso ex lege dall' Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce                                                                                                      CONVENUTO

E PROSEGUITA DA

C.M.D. + 7,

              ATTORI

 

NEI CONFRONTI DI

MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del ministro p.t., rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce                                                                                                      CONVENUTO

All'udienza del 19.12.2013 la causa veniva posta in decisione, previa assegnazione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., sulle conclusioni rassegnate dalle parti, come da relativo verbale in atti.

MOTIVAZIONE

Ai sensi dell'art. 132 co. 2 n. 4 c.p.c., come modificato dall'art. 45 co. 17 della legge 18 giugno 2009 n. 69, applicabile anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore di tale legge di modifica (4 luglio 2009) ai sensi dell'art. 58 co. 2 della stessa legge, la presente sentenza viene motivata attraverso una «concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione n.

C.L. nel 1986 è stata ricoverata presso il Policlinico di Bari, dove ha subito un intervento chirurgico durante il quale è stata sottoposta ad emotrasfusioni.

La stessa, premettendo che in seguito alle predette trasfusioni di sangue ha contratto una "cirrosi epatica HCV", ha convenuto in giudizio il Ministero della Salute affinché sia condannato al risarcimento del danno da essa subito.

Essendo la C. deceduta il 25.02.2010, il giudizio è stato proseguito dagli eredi di costei, i quali, costituitisi con comparsa depositata in data 17.04.2013, hanno richiesto il risarcimento, iure hereditatis, dei danni subiti dalla loro congiunta.

Considerato che, con la sentenza parziale n. 2076/2012, emessa in data 04.10.2012, questo Giudice ha rigettato l'eccezione di incompetenza per territorio del giudice adito e le eccezioni di difetto di legittimazione passiva e di prescrizione sollevate dal convenuto, non resta che pronunciarsi sulla fondatezza della domanda.

Ciò premesso, la domanda attorea merita accoglimento.

In punto di fatto va innanzitutto premesso che è pacifico che, effettivamente, la C. nel 1986 fu sottoposta ad emotrasfusioni presso il Policlinico di Bari.

Per ciò che concerne la sussistenza del necessario nesso di causalità materiale tra le predette emotrasfusioni e la patologia contratta dalla C., esso è stato ravvisato dal consulente tecnico d'ufficio nominato nel corso del giudizio.

Ed infatti nella relazione depositata in data 25.6.2013 il dott. Piero Grima ha affermato che "in assenza di altre condizioni di rischio per epatite C (. .. ) è altamente probabile che L.C. abbia contratto infezione da HCV a seguito delle quattro trasfusioni subite nel 1986 ".

Può, dunque, ritenersi senz' altro sussistente il nesso eziologico tra le emotrasfusioni alle quali la C. è stata sottoposta e l'epatite dalla stessa contratta, tenuto conto, per un verso, che, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 582/2008, in tema di responsabilità extracontrattuale per danno causato da emotrasfusione "la prova del nesso causale, che grava sull'attore danneggiato, tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV, ove risulti provata l'idoneità di tale condotta a provocarla, può essere fornita anche con il ricorso alle presunzioni (art. 2729 c.c.) " e considerato, sotto altro profilo, che ai fini dell'accertamento del nesso causale in materia di responsabilità civile non vige la regola applicata ai fini dell'affermazione della responsabilità penale della prova "oltre il ragionevole dubbio" (Cass. Pen. SS.UU. n. 30328/02, Franzese), bensì quella della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non ", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti (Cass. Civ. SS.UU. 584/2008).

Per ciò che concerne, poi, la sussistenza non solo del nesso di causalità materiale, ma anche del necessario nesso di causalità giuridica tra la condotta omissiva ascritta del Ministero e le conseguenze lesive che ne sono derivate a danno dell'attrice va rilevato che non può condividersi l'eccezione del convenuto secondo cui alcuna responsabilità potrebbe essergli imputata poiché all'epoca in cui vennero effettuate le trasfusioni de quibus non era stato ancora individuato il virus dell' epatite C (HCV) e non esistevano quindi i relativi markers attraverso i quali accertarne la presenza nel sangue dei donatori.

In proposito va premesso che, come evidenziato dalla Sezioni Unite da ultimo nella nota sentenza n. 581/2008, anche prima dell'entrata in vigore della Legge 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttiva e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della salute, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materi sanitaria.

Ed infatti, la L. n. 592 del 1967, (art. 1) prevede che il Ministero emani le direttive tecniche per l'organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione, e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita la vigilanza, e gli attribuisce inoltre (art. 21) il compito di autorizzare l'importazione e l'esportazione di sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico;

il D.P.R. n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3, 103, 112);

la L. n. 519 del 1973, attribuisce all'Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica;

l'art. 6 (lettere b) e c) della L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale, conserva al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati, mentre l'art. 4 (n. 6) conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale;

il D.L. n. 443 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla ed. "farmacosorveglianza" da parte del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio.

Ne discende che "l 'omissione, da parte del Ministero, di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando ( ... ) dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi" (Cass. SS.UU. n. 581/2008 cit.).

Ciò premesso, va evidenziato che, come osservato nella predetta pronuncia, "ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo".

Tuttavia, "non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della ed regolarità causale" (ibidem).

Ne discende che, secondo la teoria della regolarità causale, "ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta ( ... ) che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili" in base ad una valutazione da compiersi, sebbene a posteriori, ex ante ed in concreto (c.d. prognosi postuma), tenendo tuttavia presente che "ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell'evento" (Cass. n. 581/2008 cit.).

Per ciò che concerne, poi, in particolare, "l'imputazione per omissione colposa", il Supremo Consesso ha innanzitutto evidenziato che, in tal caso, "il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto".

Ed infatti, "poiché l'omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto".

Individuato tale obbligo, la causalità, che nell'omissione non può essere di ordine strettamente materiale, atteso che ex nihilo nihil fu, diviene tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico, ovverosia appurando se l'azione doverosa omessa avrebbe, con un elevato grado di probabilità, impedito l'evento.

Muovendo dai predetti principi in tema di nesso causale da comportamento omissivo, le Sezioni Unite giungono quindi ad individuare anche il criterio per la determinazione temporale della responsabilità del Ministero per i c.d. danni "da sangue infetto", ovverosia per la lesione dell'integrità psicofisica subita da soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, superando, almeno in parte, le conclusioni alle quali la Corte era pervenuta con la sentenza n. 11609 del 2005.

Ed infatti in tale pronuncia i giudici di legittimità avevano affermato che ''finché non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perché l'evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l'evento lesivo, in quanto all'interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l'omissione causante e non successivamente, non apparivano del tutte inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l'attività omessa".

Con la pronuncia in esame, invece, le Sezioni Unite, sulla scorta del rilievo che, come osservato da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina, "non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale (trasfusione con sangue infetto - contagio infettivo - lesione dell'integrità)", pervengono alla conclusione che "già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell'esclusiva competenza del giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell'integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge".

Ebbene. premesso che, secondo quanto sancito dalla Suprema Corte, è compito del giudice adito accertare l'epoca a cui risale la conoscenza della patologia contratta dal soggetto emotrasfuso, nel caso di specie va affermata la sussistenza del necessario nesso eziologico tra la condotta omissiva colposa del Ministero e l'evento lesivo che ne è derivato, e, dunque. la sua responsabilità per l'epatite da cui è affetta l'attrice, atteso che, secondo quanto riferito dal c.t,u. nella relazione depositata in atti, all'epoca in cui la C. subì il contagio "pur in assenza dell'isolamento di HCV .. vi erano già da tempo, conoscenze scientifiche (e relative norme di prevenzione) sufficienti, derivanti da molteplici riscontri nazionali ed internazionali".

Appurata, dunque, sulla scorta delle considerazioni che precedono, la responsabilità del Ministero della Salute, occorre procedere alla quantificazione del danno subito dalla C., stimato dall'ausiliario in ottanta punti percentuali di invalidità permanente.

Orbene, premesso che le valutazioni espresse dal C.t.u. meritano condivisione, in quanto immuni da vizi logici e carenze procedimentali, nel determinare la somma spettante agli attori a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da lesione dell'integrità psico-fisica subito dalla loro congiunta, questo Giudice ritiene di fare applicazione delle nuove tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale adottate dall'Osservatorio per la giustizia civile del Tribunale di Milano, anche in considerazione del fatto che, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità nella citata sentenza n. 12408/2011, gli importi in essa contenuti costituiranno d'ora innanzi, per la giurisprudenza della Corte, il valore da ritenersi "equo", e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l'entità.

Occorre inoltre evidenziare che le predette tabelle prevedono la liquidazione congiunta del danno non patrimoni aie conseguente a «lesione permanente dell'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico legale», nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi, e del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di "dolore", "sofferenza soggettiva", in via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione, vale a dire la liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di così detto danno biologico "standard" e di così detto danno morale, apparendo dunque conformi ai principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella nota sentenza 26972/2008.

Per ciò che concerne l'età da prendere in considerazione ai fini del risarcimento, occorre fare riferimento a quella che la C. aveva nel 1986, anno in cui ha contratto la patologia per cui è causa, ovverosia 47.

Ebbene, facendo applicazione delle citate tabelle l'importo che spetterebbe agli attori a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da lesione permanente dell'integrità psico-fisica della de cuius è pari ad € 722.483,00.

Il predetto importo, tuttavia, essendo la C. deceduta nel corso del giudizio, va ridotto in misura tale da risultare parametrato all'effettiva durata della sua vita.

Al riguardo, infatti, va rilevato che il danno da risarcire iure hereditario in favore di congiunti che hanno proseguito il giudizio va quantificato sulla scorta della percentuale di invalidità accertata dal c.t.u., avendo la giurisprudenza ripetutamente affermato che la vita e la salute sono beni giuridici distinti, sicché non è corretto equiparare, ai fini risarcitori, il decesso della vittima ad una lesione dell'integrità fisica della medesima pari al 100%.

Ciò premesso, va rilevato che la giurisprudenza ha avuto più volte modo di affermare che "ai fini della liquidazione del danno biologico, l'età in tanto assume rilevanza in quanto col suo crescere diminuisce l'aspettativa di vita, sicché progressivamente inferiore è il tempo per il quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione della sua integrità psicofisica. Ne consegue che, quando invece la durata della vita futura cessa di essere un valore ancorato alla probabilità statistica e diventa un dato noto per essere il soggetto deceduto, allora il danno biologico (riconoscibile tutte le volte che la sopravvivenza sia durata per un tempo apprezzabile rispetto al momento delle lesioni) va correlato alla durata della vita effettiva, essendo lo stesso costituito dalle ripercussioni negative (di carattere non patrimoniale e diversa dalla mera sofferenza psichica) della permanente lesione della integrità psicojìsica del soggetto per l'intera durata della sua vita residua" (Cass. civ. sez. III 18 gennaio 2012 n. 666 - Cass. civ., 24 ottobre 2007, n. 22338; Trib. Roma sez. XIII 17 giugno 2011 n. 13104 in Redazione Giuffrè 2011).

Il criterio, tra quelli adottati in siffatte ipotesi per determinare la somma da liquidare a titolo di risarcimento del danno alla persona subito da soggetto deceduto alla effettiva durata della sua vita, che questo Giudice ritiene maggiormente condivisibile, è quello che quantifica la somma spettante in proporzione al periodo di tempo intercorso fino al momento del decesso, con la conseguenza che, nel caso di specie, tenuto conto del fatto che la C. è deceduta all'età di 71 anni e che l'aspettativa media di vita per le donne in Italia è stimata pari a circa 84 anni e mezzo (v. Corte d'Appello Firenze 12.2.2013 n. 243), va liquidata, in favore dei suoi eredi, la somma di € 466.910,76 (pari all'importo che sarebbe stato liquidato ove l'attrice non fosse deceduta, diviso per 441 - il numero di mesi che si presume permanga in vita una donna di 47 anni in base alla predetta durata della vita media - e moltiplicato per 285, il numero di mesi che la stessa ha effettivamente vissuto).

Essendo l'importo del risarcimento stato quantificato in moneta attuale, sulla predetta somma non va applicata rivalutazione monetaria, né su di essa possono riconoscersi interessi compensativi a titolo di risarcimento del danno da lucro cessante, non avendo gli attori provato, neppure sulla scorta di presunzioni, che qualora la C. avesse avuto l'immediata disponibilità di tale somma avrebbe potuto impiegarla redditiziamente in modo da conseguire un guadagno superiore a quanto già liquidato a titolo di rivalutazione monetaria (cfr. Cass. n. 3268/2008 – Cass. n. 22347/2007).

Nessuna somma può essere riconosciuta agli attori a titolo di risarcimento del danno da inabilità temporanea, non a caso non quantificato dal c.t.u., atteso che il decorso clinico delle patologie da cui essa è stata affetta è quasi sempre asintomatico e che quando si percepiscono i sintomi la malattia è già cronicizzata.

Neppure può essere riconosciuto in favore degli attori alcun danno patrimoniale da lesione della capacità lavorativa specifica, atteso che nulla ha riferito in proposito il dott. Grima, cui pure era stato domandato di accertare l'incidenza delle patologie contratte dalla C. sulla predetta capacità.

La complessità della materia, tale da richiedere un intervento a Sezioni Unite della Suprema Corte, successivo alla proposizione del presente giudizio, giustificano l'integrale compensazione delle spese ad esso relative.

P.Q.M.

Il Tribunale, in composizione monocratica in persona del Giudice dott. Maurizio Rubino, definitivamente decidendo nella causa iscritta al n. 5301/2006 RG., così provvede:

accoglie la domanda attorea e, per l'effetto, condanna il Ministero della Salute al pagamento, in favore di C.M.D. + 7, quali eredi di C.L., della somma di € 466.910,76.

compensa interamente tra le parti le spese del presente giudizio.

Lecce, 9 maggio 2014.